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Cesare Geronzi
Il banchiere per tutte le stagioni
di Domenico Marcello

Cesare Geronzi amministra il potere per gradi di
prossimità. Fra lui e il fatto ci possono essere così
tante fasce di interposizione che il fatto diventa
opera altrui. I giudici di Parma lo hanno interdetto a
27 mesi di distanza dal crac di Calisto Tanzi e messo
sotto accusa per bancarotta e usura. Hanno lasciato
intendere che la loro mano avrebbe potuto essere più
pesante. Ma non hanno osato. “Davanti a lui tremava
tutta Roma”. Ma lo Scarpia di Tosca era morto. Geronzi
per nulla. Asserragliato in un bunker legale costruito
con gli studi di Giuliano Vassalli e Guido Calvi, il
presidente di Capitalia giostra i suoi avvocati rossi
(un ex ministro socialista e un deputato diesse) come
per tutta la vita ha saputo fare fra diavolo e acqua
santa, stampa di sinistra e Vaticano, Giulio Andreotti
e Walter Veltroni, Roma e Lazio, i debiti degli ex
comunisti e quelli della Fininvest.
Legioni di imprenditori, commercialisti, notai,
avvocati, periti, curatori fallimentari, calciatori,
giornalisti e magistrati hanno vissuto delle sue
commesse e dei suoi prestiti. Lui li ha legati a sé
uno per uno e poi li ha gestiti, per gradi. Prossimità
con tanti, confidenza a pochissimi. E quando lui si
allontanava, brutto segno. Chi è entrato nel sistema
Geronzi e ha perso il favore del sovrano non ne è
uscito intero.
Eppure per quanto grande sia stata la sua prudenza, i guai
maggiori gli sono venuti da alcuni sodali del primo cerchio,
Antonio Fazio e Sergio Cragnotti, quelli che non possono
accusare Geronzi senza accusare se stessi.
L’uomo del crac Cirio è stato arrestato nel
febbraio 2004, 15 mesi dopo il default. Durante il periodo
in carcere, Cragnotti si è comportato come i duri
della tradizione romanesca, una parola è poca e due
so‚ troppe. Ha mandato appena qualche segnale al banchiere
che per primo ha creduto in lui quando a Dublino nacque
la Cragnotti & partners (fine 1990) e che, per i bene
informati, non ha mai davvero lasciato il vecchio socio.
Cragnotti è uno dei pochi con cui Geronzi abbia avuto
un rapporto costantemente paritario. Sono cresciuti insieme
a cavallo fra gli anni Ottanta e gli anni Novanta quando
Cragnotti si era ben allocato nella finanza milanese che
conta, in Montedison e dunque Mediobanca. Geronzi intanto
stava nella capitale a costruire la sua superbanca romana
partendo da direttore generale della Cassa di risparmio
di Roma, piccolo istituto devoto a Madre Chiesa con una
Fondazione che era la stanza di compensazione dei poteri
romani, fra aristocrazia nera, politici, nobiltà
intellettuale, prelati, massoni e cavalieri di Malta.
In meno di due anni, Geronzi si è preso dall‚Iri
di Romano Prodi il Santo Spirito e poi, con l‚andreottiano
Franco Nobili alla guida della holding di Stato, il Banco
di Roma (1990-1991). A quel punto, il ragioniere di Marino
è arrivato da azionista in quella Mediobanca dove
lo si guardava con certo sospetto in quanto andreottiano,
cioè fedele del migliore amico del peggiore nemico
di Enrico Cuccia, Michele Sindona.
Per rafforzarsi sulla piazza milanese, Geronzi ha potuto
contare su un altro degli uomini del primo cerchio, il romanissimo
e fascistissimo Giuseppe Ciarrapico che si è presentato
a Segrate su mandato di Andreotti per risolvere la guerra
della Mondadori fra Carlo De Benedetti e Silvio Berlusconi.
Con i finanziamenti di Geronzi Ciarrapico ha messo insieme
un gruppo (Italfin 80) in pochi anni comprando cliniche
ed acque minerali. Al momento del crac di Italfin 80, l’istituto
romano risulterà impegnato per 300 dei 450 miliardi
di lire dell’insolvenza. Ma il Ciarra resterà
fedele e, anche interdetto dalle cariche sociali, rimarrà
a lungo nel panel dei consulenti di Capitalia, con macchina
di servizio ed autista.
Grazie al rapporto personale fra Ciarrapico e Berlusconi,
la penetrazione su Milano si è completata con la
nascita di un rapporto d’affari Fininvest-Banca di
Roma. Nella fase precedente la quotazione di Mediaset (1996),
la Fininvest èstata sostenuta dai crediti di Geronzi
quando nessuna banca credeva più nell’indebitatissima
holding del Biscione.
Intanto i guai giudiziari colpivano quasi tutti i sodali
del primo cerchio. Nel 1993 Ciarrapico e Cragnotti, che
si erano comprati Roma e Lazio, sono finiti in carcere.
Berlusconi è stato messo sotto inchiesta. Dirigenti
dello stesso gruppo bancario romano sono finiti sotto indagine
per i certificati di deposito rubati del Banco di Santo
Spirito. Il procedimento è stato seguito da un magistrato
quarantenne della procura presso la pretura di Roma, Achille
Toro. Come finisca l‚indagine non si saprà
mai. Oggi Toro è a sua volta sotto inchiesta con
l’ipotesi di avere divulgato informazioni sulle inchieste
riguardanti i furbetti e Giovanni Consorte.
Nonostante gli incidenti di percorso, la Banca di Roma ha
continuato ad espandersi. Si è accollata banche con
i conti disastrati come la Mediterranea o la Sicilcassa,
insieme al Banco di Sicilia, e nel 1995 ha soffiato a Giovanni
Bazoli la Banca nazionale dell’agricoltura. La Bna
è stata acquistata dal conte andreottiano Giovanni
Auletta di Armenise per circa 500 miliardi di lire. Tutte
queste mosse hanno avuto l‚avallo di un altro esponente
di spicco del primo cerchio geronziano, il governatore della
Banca d’Italia.
Antonio Fazio la parità se l’è guadagnata
col tempo. Quando negli anni Settanta Geronzi lavorava All’istituto
centrale come capo del servizio esteri e Fazio era responsabile
dell‚ufficio studi, il ruolo esecutivo passava per
le mani di Geronzi e a Fazio spettava il ruolo prestigioso
del secchione, un po‚ in seconda fila. Di gente più
brillante di lui in Bankitalia ce n’era, a cominciare
da un altro andreottiano, Lamberto Dini. Troppo brillante,
forse, il Dini, troppo vicino a una massoneria perdente.
Sconfitto lui, Fazio ha incominciato a tessere la tela che
lo ha portato ad emanciparsi da Geronzi.
Sul perché i due abbiano rotto nel 2004, esistono
congetture di ogni tipo. Quella più corrente parla
della gelosia provata da Geronzi verso il nuovo pupillo
di Fazio, Gianpiero Fiorani. È anche l’ipotesi
meno realistica. Per un uomo del potere e della freddezza
di Geronzi, Fiorani era semplicemente, ed è tuttora,
il signor nessuno. Il duello è stato al vertice,
fra lui e il governatore. Lo scontro è scoppiato
quando Fazio ha vietato agli olandesi di realizzare il polo
Capitalia-Antonveneta che avrebbe garantito a Geronzi un
gruppo bancario radicato sull‚intero territorio nazionale,
dagli sportelli siciliani alle agenzie in Cadore. Era il
completamento logico dell‚espansione incominciata
con l’acquisto di Bipop-Carire, un gruppo bancario
pieno di rogne e molto meno appetibile di Antonveneta.
Perché Fazio ci ha ripensato e ha puntato sulla
banchetta di Fiorani? Scartando il fumo negli occhi
dell’italianità del sistema creditizio, il governatore
ha fatto marcia indietro per i due crac in cui Geronzi
si è trovato coinvolto. La bancarotta Parmalat nel
dicembre 2003, più che quella della Cirio, ha
distrutto il rapporto fra i due banchieri.
Calisto Tanzi non è mai stato un sodale del primo
cerchio, al contrario di Cragnotti. In passato aveva avuto
un protettore politico, Ciriaco De Mita, che negli equilibri
della Seconda Repubblica non contava più niente.
Come imprenditore Tanzi era più grande di un Luciano
Gaucci ma non pesava tanto più di lui. Si poteva
tenere con le redini lunghe o corte, secondo l’utile.
Il ragioniere di Collecchio, per conto suo,
assecondava questo rapporto. Recitava la parte
dell’ingenuo sempliciotto padano, magari disponibile a
qualche maneggio non troppo regolare, però manovrabile
in tutto e per tutto dai volponi romani. Gli affari
Eurolat e Ciappazzi lo dimostrano.
Nel primo caso, Cragnotti e Geronzi hanno girato a Tanzi
il settore lattiero di Cirio. Fra queste società
c’era la Centrale di Roma, da poco ceduta a Cirio
per 107 miliardi di lire (gennaio 1998) dall’assessore
comunale Linda Lanzillotta (giunta Rutelli) e inserita nel
pacchetto di cessioni da Cragnotti a Parmalat per 760 miliardi
nel febbraio 1999, ben prima che scadesse la clausola quinquennale
di lock-up. Gran parte della plusvalenza sul latte (416
miliardi) è finita direttamente alla banca di Geronzi
per ridurre l’esposizione con Cirio, come Bankitalia
imponeva.
Nel caso Ciappazzi, Ciarrapico e Geronzi hanno
stravenduto a Tanzi un‚azienda di acque minerali che
non valeva quasi niente per ridurre l’esposizione di
Capitalia con Italfin 80, come Bankitalia imponeva.
Per diretta conseguenza, la voragine di Collecchio
aumentava.
Fazio non ha mai perdonato a Geronzi di essersi fatto trascinare
nella più grande bancarotta della storia europea
senza capire fino a che punto l’ingenuo Tanzi avesse
devastato in proprio le finanze dell’azienda. Geronzi,
in cambio, ha potuto ritenere di avere agito in stretta
conformità con le disposizioni della banca centrale.
E in quanto alla credulità, lo stesso Fazio si è
fatto fregare da Tanzi a proposito dei fantomatici 4 miliardi
di dollari depositati sul conto della Bank of America.
Oggi il ragionier Calisto insiste sulla linea
difensiva dell’uomo di campagna che ha molto peccato
ma è pentito, a differenza di alcuni banchieri
cattivi. Se Cragnotti ha mantenuto lo scontro con
Geronzi nei limiti minimi, Tanzi ha sciorinato i panni
sporchi.
Oltre a questo, c’è qualcosa di più,
che non verrà fuori dai confronti in Procura a Milano
fra Fazio e Geronzi. L’aspetto più oscuro delle
ultime vicende bancarie, da Bnl ad Antonveneta, sta nella
presenza di un gruppo di investitori apparsi d’improvviso
sulla scena della finanza italiana con moltissimi soldi
in mano e biografie estremamente confuse.
Il caso più esemplare è quello di Stefano Ricucci, un
immobiliarista mai sentito nominare dagli
immobiliaristi e costruttori romani finché è diventato
azionista di Capitalia, e poi di Antonveneta e poi di
Rcs.
Geronzi ha sempre fatto mostra di freddezza nei suoi confronti
ma è lecito dubitare che un uomo abituato a scegliersi
i soci con oculatezza, da Marchini a Toti, dai libici della
Lafico a Pirelli, da Ligresti a De Agostini, da Fininvest
alla Finnat di Giampietro Nattino, si ritrovi a sorpresa
in casa un odontotecnico di Zagarolo con quasi il 4% delle
azioni Capitalia.
Né poteva dispiacere all‚unico banchiere italiano di
centrodestra (Berlusconi dixit) che il Corriere
finisse un po‚ meno a sinistra grazie anche agli
investimenti di Ricucci nel capitale Rcs.
Ma questo riassetto di poteri adesso è tramontato.
È il momento di difendersi più che di attaccare.
Come se non bastassero i crac Cirio e Parmalat, la Direzione
distrettuale antimafia di Roma ha appena aperto un’inchiesta
per un buco da 80 milioni di euro, denunciato dallo stesso
ufficio legale dell’istituto romano ma creato da dirigenti
di Capitalia con l’appoggio di professionisti esterni.
E i fronti giudiziari non sono l’unico pericolo.
Gli olandesi forse non saranno gente di intuito folgorante,
ma sono duri e fanno banca in Europa da cinque secoli. I
soci di Abn Amro ci hanno messo un poco a capire il meccanismo
del potere politico-finanziario da quando il loro rappresentante
in Italia, il banchiere Gilberto Gabrielli, amicissimo e
collega di Giovanni Consorte in Montedison, li ha guidati
dentro il capitale dell’istituto romano per 1300 miliardi
di lire. A questo punto, però, hanno capito che con
il loro 7,68% nel cuore del patto di sindacato Capitalia
tengono in pugno il banchiere di Marino. Se loro se ne vanno
alla fine di ottobre, come hanno lasciato intendere, Capitalia
avrà bisogno di un socio forte. È già
tornato a bussare Giovanni Bazoli di Banca Intesa, a condizione
che il matrimonio Milano-Roma si faccia di comune accordo,
cioè con Milano che comanda e che comanda davvero,
non come negli ultimi anni, con l’amministratore delegato
milanese Matteo Arpe in sala riunioni a fare la faccia cattiva
per conto del presidentissimo.
Lo sbarco dei lombardi in via del Corso significa la fine del potere per Geronzi. E un uomo di relazioni, favori e segreti come il banchiere di Marino non può accettarlo. Darà battaglia fino in fondo come ha fatto il suo unico maestro, Giulio Andreotti.

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