La grande spy-story italiana dell’estate. Telefoni sotto controllo, tabulati comprati e venduti, rapimenti made in Usa. Protagonisti: investigatori privati, agenti del Sismi, uomini della Cia. Con un morto: Adamo Bove, il dirigente della sicurezza Tim. Guida per orientarsi nella selva di nomi e di fatti, depistaggi e veleni
di Gianni Barbacetto e Paolo Biondani

Chi ha ucciso Adamo Bove?
La grande spy-story italiana dell’estate 2006 è una storia vera di telefoni intercettati, tabulati comprati e venduti, rapimenti made in Usa, investigatori privati, agenti segreti e uomini della Cia. Spioni di Stato che, in nome dell’emergenza terrorismo, commettono reati, organizzano sequestri di persona, frodano la giustizia, manipolano l’informazione, tentano di condizionare la democrazia parlamentare. E spioni privati che, in nome dell’emergenza sicurezza, intascano montagne di soldi vincendo gli appalti a colpi di mazzette, fino a diventare tanto potenti da controllare dall’interno i colossi economici che dovrebbero servire e perfino le procure che vorrebbero indagarli.
Le inchieste giudiziarie che negli ultimi mesi hanno incrociato il caso Cia-Sismi all’affare Telecom nascono insieme, tra il febbraio e il marzo del 2003, da fatti circoscritti: una storiella cittadina di guardiani-fantasma nei parchi di Milano; e una denuncia «per sentito dire» di una donna egiziana, amica della testimone di un sequestro, che però ha paura di deporre. Le due indagini milanesi viaggiano per tre anni in vagoni separati. I due treni si uniscono solo nel luglio scorso. Con l’arresto di due capidivisione del servizio segreto militare italiano, il Sismi, accusati di complicità nel sequestro di un imam rapito a Milano da un commando della Cia. E con il suicidio in circostanze quantomai misteriose di Adamo Bove (nella foto), ex poliziotto anticamorra diventato manager della sicurezza di Tim-Telecom.
Il doppio giallo dell’estate scatena un’eruzione senza precedenti di false notizie, indiscrezioni pilotate, articoli depistanti, scoop sospetti. Il caos è intenzionale e, come sempre, aiuta i delinquenti. Per uscire dal gioco della disinformazione, serve molta pazienza: bisogna mettere in fila i nomi e i fatti certi, che non sono poi molti, ripartendo dall’inizio. E tenere sempre a mente che in Italia lo spionaggio pubblico e privato, per quanto ammantato delle più alte motivazioni ideologiche, in realtà è solo un mezzo per puntare a fini molto concreti: i soldi. Tanti, sporchi e subito. Dovrebbero capirlo anche i nostri liberali immaginari, garantisti a due velocità, che ieri tuonavano contro il 41 bis (il carcere duro per i boss mafiosi) e oggi – orfani della Guerra fredda – adorano rapimenti, torture, sospensioni dello stato di diritto, in nome dell’Occidente e della sacra crociata contro il terrorismo islamico.

Milano, marzo 2003. I guardiani notturni scompaiono dai parchi. I pm Fabio Napoleone e Maria Letizia Mannella aprono un’inchiesta sul contratto d’appalto con cui il Comune ha affidato all’istituto di vigilanza Città di Milano la sorveglianza notturna dei parchi del centro. Gli appostamenti della polizia municipale confermano i sospetti: al parco Sempione e nei giardini di piazza Vetra, accanto alla splendida basilica di San Lorenzo, sono effettivamente in servizio meno di metà dei vigilantes dichiarati dall’impresa privata, che invece è remunerata per l’intero con soldi pubblici. Il responsabile legale della società e il comandante della divisione parchi vengono indagati per truffa pluriaggravata: se si allargano all’intero appalto i risultati statistici dei controlli a campione, l’istituto di vigilanza risulta aver incassato in due anni circa 500 mila euro di compensi ingiustificati.
Dopo i primi sei mesi d’inchiesta, la legge italiana (una delle tante nuove norme votate dal Parlamento per frenare non gli scandali, ma le indagini che li svelano) impone alla procura di avvisare gli inquisiti. A quel punto, il 16 settembre 2003, i magistrati perquisiscono la sede dell’istituto Città di Milano. E scoprono che i guardiani-fantasma non sono assenteisti: sono andati regolarmente a lavorare, ma in altri servizi di vigilanza appaltati alla stessa società.
La direzione dell’istituto, vicinissima alla giunta-vetrina del centrodestra, non si scompone: «Restiamo fiduciosi nel lavoro della magistratura e attendiamo l’esito delle indagini. L’accusa ci lascia un po’ increduli: esistiamo da 80 anni, abbiamo mille dipendenti, siamo un colosso storico della sicurezza privata a Milano. Violare gli impegni non è nel nostro interesse, anzi sarebbe solo dannoso. Per questo abbiamo già disposto una indagine interna: siamo noi i primi a voler sapere cosa è davvero accaduto». La dichiarazione è, a suo modo, profetica.
Procura spiata. In seguito alla perquisizione, i magistrati scoprono che il presidente dell’istituto di vigilanza, Claudio Tedesco, riesce addirittura a conoscere in tempo reale tutte le mosse della procura. Dopo i soliti sei mesi d’indagine, il 31 marzo 2004 il manager della sicurezza viene arrestato insieme alle sue «talpe» giudiziarie. Due insospettabili: una cancelliera dell’ufficio gip (la sezione del tribunale di Milano che autorizza tutti gli arresti e le intercettazioni) e perfino un magistrato onorario.
L’impiegata Daniela S., 26 anni, neolaureata e aspirante magistrato, ha controllato per ben 94 volte in cinque mesi, attraverso il computer di un ignaro giudice togato, l’avanzare dell’inchiesta contro l’istituto Città di Milano. L’incrocio tra indagini informatiche, tabulati e intercettazioni mostra che la cancelliera, proprio mentre apre i file segreti della procura, parla al telefono con il giudice onorario, Guido Vittorio Travaini, che a sua volta rassicura il manager delle guardie giurate: «Io mi sto recando in quel posto che poi, tra un’oretta e mezza, ho quella famosa risposta che ti devo dare».
Il suo arresto fa scandalo: Travaini si presenta come «criminologo dell’università Statale di Milano» ed è uno degli esperti esterni che sono chiamati a pieno titolo a far parte dei collegi del tribunale di sorveglianza, dove si decide su tutte le richieste dei detenuti di mezza Lombardia, dai permessi alle scarcerazioni. Al suo fianco, per anni, era seduto il presidente Manlio Minale, che nel frattempo è diventato il capo della procura. Nella squadra antispioni, proprio Minale ha inserito un nuovo pm, Stefano Civardi. E l’ultima intercettazione prima dell’arresto vede Travaini impegnato ad avvicinare perfino l’uditrice giudiziaria appena assegnata a Civardi: «Cosa ti fanno fare?», le chiede il 17 marzo. «Ma vi fanno entrare nel registro e tutte quelle robe lì? Cioè, fra l’altro vedi anche roba riservata, no? Venerdì sono alla Sorveglianza, avresti voglia di bere un caffè?».
Tangenti, appalti e sicurezza. La scoperta delle prime spie interne al tribunale, che confessano e patteggiano, permette alla procura di tenere segrete altre intercettazioni, che svelano un traffico di tangenti sugli appalti che non si limita al pur rilevante istituto milanese Città di Milano. Il 13 maggio 2004, otto arresti scuotono l’intero gruppo Ivri (Istituti vigilanza riuniti d’Italia), allora numero uno in Italia nel business della sicurezza privata.
In carcere finiscono il presidente e comproprietario dell’Ivri, Giampietro Zanè; il suo commercialista Donato Carone; il direttore centrale della sicurezza di Poste italiane, Maurizio Filotto, che dal 2003 rappresenta il Comune di Milano nel board della Sea (la società che gestisce Linate e Malpensa) ed è anche consulente della Regione Lombardia, consigliere d’amministrazione di Sviluppo sistema Fiera, nonché presidente onorario dell’Associazione carabinieri in congedo; un tenente colonnello dell’Esercito, Francesco Stuffi, in servizio alla direzione generale per gli appalti del ministero della Difesa; un impiegato civile della stessa struttura militare, Maurizio Cirillo; e un dirigente dell’Enav (l’ente di controllo dei voli), Roberto Cosentino.
Il manager già arrestato, Claudio Tedesco, e l’amministratore dell’Ivri di Torino, Leone Calzone, ottengono gli arresti domiciliari dopo aver firmato ammissioni parziali, ma preziose per decifrare le telefonate altrui. Le tangenti contestate dall’accusa partono dal 2000 e arrivano al presente, anzi ipotecano il futuro. Filotto viene ammanettato mentre si prepara a riscuotere, secondo i magistrati, la prima rata dei 600 mila euro promessigli dall’Ivri in cambio della proroga per altri due anni del contratto in esclusiva per il trasporto valori degli uffici postali di tutta Italia: un appalto da 15 milioni di euro. Il colonnello della Difesa invece finisce in cella per una tangente di 100 mila euro, che ha garantito al gruppo corruttore la vigilianza di 46 «obiettivi a rischio di attentati terroristici» in 24 province. Il dipendente dell’Enav ha intascato 50 mila euro all’anno, secondo l’accusa, per pilotare l’appalto per la sorveglianza delle torri di controllo di Milano-Linate e Torino-Caselle.
L’inchiesta documenta gli incresciosi risultati della privatizzazione della sicurezza varata, nel clima della Grande Paura seguita all’11 settembre, dal governo Berlusconi, in nome del risparmio di uomini e mezzi pubblici. Alla corruzione si accompagna, come il cacio sui maccheroni, l’accusa di frode nell’esecuzione degli appalti. Al solito trucco dei guardiani-fantasma, schierati cioè solo sulla carta, si aggiunge perfino la cresta sui vigilantes disarmati: assunti senza porto d’armi perché costano meno e mandati quindi a presidiare aeroporti o depositi d’armi con la fondina bene in vista, ma vuota.
I fondi neri per pagare le tangenti sono custoditi nell’armadio blindato della sala riunioni dell’Ivri di Torino, dove i carabinieri milanesi sequestrano 400 mila euro in contanti (ma pochi giorni prima gli intercettati parlavano di 700 mila). Il giro di mazzette attorno a quell’armadio è tanto rutilante che due manager arrestati hanno perso il conto: «Qualcuno mi deve pur spiegare a chi abbiamo dato questi soldi», impreca un dirigente il 27 gennaio. «Lo sto domandando a te», replica l’altro. «Ma se li ho dati a te...». «A me?». «Sì, a te, per l’Enav e l’Esercito...».
Per l’appalto dell’Enav (presidio armato sotto le torri di controllo del traffico aereo), il gruppo Ivri è riuscito perfino a sostituire in corsa la busta con la propria offerta, poi naturalmente risultata vincente. A raccontarlo è una gustosa intercettazione del funzionario inquisito: «Carta intestata, timbri, gli stessi che hai usato per l’altra volta..., portati dietro la fotocopia dell’offerta, la carta intestata in bianco, un po’ di fogli, ché dobbiamo rifare e il timbro uguale!».
Il personaggio più in vista è Filotto, ex carabiniere dell’antiterrorismo che da anni colleziona nomine con l’appoggio di politici ciellini e di Forza Italia. Il gruppo Ivri, secondo l’accusa, gli ha già versato 170 mila euro in cambio di un altro appalto: la sorveglianza del Pirellone e di altri immobili della Regione Lombardia. Un contratto da 12 milioni di euro in tre anni. Nelle sue confessioni, Tedesco racconta che Filotto ha favorito i suoi corruttori, nel settembre 2002, facendo inserire, dalla giunta di Roberto Formigoni, un esperto indicato direttamente dall’istituto Città di Milano nella commissione aggiudicatrice; quando questi lascia l’incarico per ragioni familiari, è lo stesso Filotto a prenderne il posto di arbitro imparziale. E in marzo, due mesi prima dell’arresto, incassa l’ultima rata proprio di questa tangente. Sempre secondo Tedesco, l’ex carabiniere dell’antiterrorismo si sarebbe dato da fare per favorire l’Ivri anche nella vigilanza della Fiera di Milano, fermandosi però in coincidenza con il blitz contro le talpe.
L’inchiesta continua in un clima avvelenato. L’Ivri, tra l’altro, sorveglia anche obiettivi giudiziari, come il tribunale dei minori e metà del palazzo di giustizia di Milano. Le intercettazioni, soprattutto, mostrano che i principali indagati pensano di poter continuare a controllare le mosse della procura, grazie a una nuova talpa giudiziaria, entrata in scena dopo gli arresti della cancelliera e del giudice onorario: questa talpa è ancor oggi senza volto. Per un anno l’inchiesta s’inabissa: i pm vogliono scoprire chi sia in grado di continuare a spiare la procura perfino durante l’inchiesta contro gli spioni.
L’affare Telecom. 4 maggio 2005, colpo di scena. L’inchiesta, a sorpresa, sale di livello e coinvolge il re delle intercettazioni: i carabinieri della procura di Milano perquisiscono uffici e abitazioni di due indagati per «associazione per delinquere finalizzata alla violazione del segreto istruttorio». Il primo è Giuliano Tavaroli, ex carabiniere dell’antiterrorismo diventato negli anni Novanta capo della sicurezza della Pirelli e dopo il 2001 dell’intero gruppo Telecom. Il secondo è Emanuele Cipriani, suo vecchio amico, massone dichiarato, titolare delle agenzie investigative Polis d’istinto e System Group di Firenze: uno dei maggiori imprenditori della sicurezza privata in Italia. L’indagine è delicatissima sotto molti profili. Tavaroli è infatti il responsabile del Centro nazionale autorità giudiziaria (Cnag), la centrale che gestisce tutte le intercettazioni telefoniche chieste dalla magistratura: proprio lui, al suo arrivo in Telecom, ha spostato questo settore strategico a Milano, sotto la divisione sicurezza, togliendolo all’ufficio legale di Roma.
Tavaroli lavorava dal 1996 alla sicurezza Pirelli. Avventuroso il modo con cui riesce a passare a Telecom. Nell’agosto 2001 arriva in azienda, come amministratore delegato, Enrico Bondi, che chiede all’allora responsabile sicurezza, Piero Gallina, «se vi fossero problemi ad affidare la bonifica di eventuali microspie alla sicurezza Pirelli», cioè a Tavaroli. Gallina: «Trovai la cosa singolare, ma non mi opposi». Il lavoro viene subappaltato da Tavaroli a Emanuele Cipriani. La relazione conclusiva segnalava impronte digitali nel controsoffitto, come se qualcuno avesse tolto in gran fretta delle cimici.
Quando poi, nel settembre 2001, viene trovata una microspia nell’auto di Bondi, Gallina viene licenziato. In quel periodo arrivano anche minacce telefoniche a Marco Tronchetti Provera, azionista di riferimento del gruppo Pirelli-Telecom: una, secondo le dichiarazioni dello stesso Tavaroli, parte da un centralino del Sisde (il servizio segreto civile), nel momento in cui Tavaroli è nella sede del Sisde, a colloquio con il generale Stefano Orlando. Nel 2003 Tavaroli diventa responsabile della sicurezza Telecom e anche della Cnag, spostata da Roma a Milano.
Di che cosa sono accusati, nel 2006, Tavaroli e Cipriani? I magistrati non scoprono le carte, non rivelano le loro fonti di prova. L’indagine è in corso e la perquisizione l’hanno dovuta fare in quel momento, ancora una volta, perché sono scaduti i termini di legge. Ma l’ipotesi di reato associativo, tradotta in volgare, significa che, secondo i pm, i due indagati sarebbero i capi di una vera e propria banda in grado quantomeno di lanciare l’allarme-intercettazioni per proteggere indagati eccellenti.
Lo stesso Tavaroli la racconta così alla Stampa: «Tutto nasce da un’indagine sull’Ivri, un istituto di vigilanza privata. Durante una telefonata intercettata tra un certo Pasquale Di Ganci, titolare della Sipro (un altro istituto di vigilanza privata), e un suo interlocutore, viene fuori il mio nome, indicato come quello che poteva avvisarli di indagini in corso». Del caso, già da oltre un anno, si erano occupati due giornali: il Corriere della sera e soprattutto il settimanale L’Espresso, che aveva scritto di un progetto (chiamato SuperAmanda o, secondo altre fonti, Enigma) per centralizzare tutte le intercettazioni telefoniche e informatiche d’Italia: piano subito smentito da Telecom.
Di fronte all’inchiesta giudiziaria, il gruppo guidato da Marco Tronchetti Provera ha una reazione oscillante: da un lato Tavaroli perde la carica semplicemente perché indagato, dall’altro resta nel gruppo come dirigente, seppur come responsabile della Pirelli pneumatici in Romania. Dal luglio 2005 al gennaio 2006 lavora ancora per Telecom, che gli ha commissionato una consulenza di survival ability, sulle possibilità di sopravvivenza della rete di comunicazioni in caso d’attacco terroristico. Nel maggio 2006 dà le dimissioni dal gruppo.
Per mesi, le perquisizioni del maggio 2005 a Tavaroli e Cipriani restano l’unico atto pubblico di tutto il caso Telecom e la segretezza dell’indagine favorisce le indiscrezioni più approssimative: la linea dei magistrati, per evitare nuove fughe di notizie, è di non smentire nemmeno le bufale. Il primo dato certo e documentabile è che l’indagine su Cipriani nasce in realtà dal ripescaggio di un’inchiesta precedente, che ha dell’incredibile.
Nel settembre 2004 due sottufficiali della guardia di finanza di Bologna, Giuseppe Mazzocca e Piero Leuzzi, si presentano in un’azienda di Viterbo, la Fratelli Farnese gomme srl, mostrando un ordine scritto per una verifica fiscale. Le modalità asfissianti del controllo insospettiscono la proprietaria dell’azienda, che chiama il comando delle Fiamme gialle e si sente rispondere che non è stata disposta alcuna verifica. Il falso accertamento dei veri finanzieri serve in realtà a spiare i registri e i computer aziendali. Interviene la polizia.
Sull’auto dei due sottufficiali, la squadra mobile sequestra un appunto con nomi di investigatori privati, cifre e percentuali: «2.500 + 5%». L’inchiesta stabilisce che l’agenzia di Cipriani ha ricevuto dalla Pirelli l’incarico di investigare proprio su quella società di Viterbo, che vendeva gomme a un prezzo giudicato troppo basso. A quel punto l’inchiesta finisce a Milano, dove la Pirelli ha sede, e all’accusa di falso si aggiunge la corruzione.
Il pm Fabio Napoleone, titolare dell’indagine, ottiene gli atti di un’altra inchiesta su Cipriani, un’indagine ormai «in sonno», nata da una denuncia per spionaggio privato presentata da un ex dirigente della Coca-Cola, entrato in collisione con la sua azienda fino a intentare una causa di lavoro per mobbing. Il manager sostiene di essere stato spiato e pedinato: secondo l’accusa da due poliziotti (veri) arruolati per un secondo lavoro (illegale) proprio da Cipriani. Il manager vittima ha scoperto i controlli abusivi quando ha ricevuto in un busta anonima un cd-rom con intercettazioni (totalmente illegali) delle sue telefonate. Né l’indagine Pirelli, né quella Coca-Cola coinvolgono le due aziende: Pirelli e Coca-Cola hanno affidato alla Polis d’istinto un incarico lecito, fino a prova contraria, che poi Cipriani ha eseguito con mezzi impropri. «Onus probandi incumbit ei qui dicit»: l’onere della prova grava sull’accusa.

Il caso Storace. Gli spioni sono come le ciliegie: da Cipriani l’inchiesta si allarga a una rete molto più vasta di agenzie investigative, sospettate di raccogliere informazioni riservate in tutta Italia con metodi illegali. Nel marzo 2006 i soliti magistrati di Milano fanno scattare 16 arresti per spionaggio privato e corruzione di pubblici ufficiali. Tra gli 11 investigatori che finiscono in carcere, spiccano due 007 romani: Pierpaolo Pasqua, titolare della Security Service Investigation (Ssi), e il suo tecnico di fiducia, Gaspare Gallo. I due sono accusati di aver spiato illegalmente 140 linee telefoniche. Ma l’accusa più clamorosa è quella di aver realizzato un sensazionale spionaggio politico: hanno cercato di condizionare le elezioni regionali del 2005 nel Lazio, costruendo false accuse per screditare Piero Marrazzo (Ulivo) e Alessandra Mussolini (Alternativa sociale), nel tentativo – fallito – di favorire la vittoria di Francesco Storace (An).
Nelle intercettazioni, i due spioni chiamano le vittime con nomi da fumetto: «Operazione Qui, Quo, Qua». Lo staff di Marrazzo viene filmato e pedinato nel tentativo di montare un falso «scandalo delle auto blu». Gli spioni reclutano pure un viados, nella vana speranza di incastrare il candidato di centrosinistra con un storiaccia a luci rosse di gusto veterofascista. L’intera vita di Marrazzo viene rovistata da due marescialli della guardia di finanza di Novara, assoldati da Pasqua, che dopo l’arresto confessano di avergli girato, in cambio di bustarelle, dati prelevati dall’archivio del Viminale e dall’anagrafe tributaria: precedenti di polizia, disponibilità patrimoniali, contratti immobiliari, dichiarazioni dei redditi del candidato e di sua moglie. Il comandante dei due marescialli di Novara farà carriera: diventerà il capocentro del Sismi di Milano.
Contro la nipote del Duce, che toglie voti da destra a Storace, il gioco è ancora più sporco: le schede di presentazione della sua lista vengono riempite di firme false, con due incursioni notturne nei computer dell’anagrafe e nella sede del partito. Il tutto con l’obiettivo (poi scongiurato dai giudici elettorali) di escludere la candidata dalle elezioni. Le intercettazioni risultano tanto eloquenti che entrambi gli investigatori confessano il complotto politico già nei primi interrogatori.
Un troncone d’inchiesta finisce a Roma, dove lo stesso Storace viene indagato come presunto mandante, mentre il capo della sua segreteria, Nicolò Accame, è interdetto da ogni carica per due mesi. Nella notte della falsificazione delle firme, Pasqua rassicurava così sua moglie, preoccupata: «L’operazione è pericolosa sì, ma non ci saranno pericoli solo a condizione che rivincano...». Il 5 aprile, dopo la sconfitta di Storace, il maresciallo Liguori si preoccupa dei soldi: «Senti un po’, ma adesso che ha perso le elezioni ti paga lo stesso?». Gallo, ridendo, gli risponde: «Veramente mi ha già pagato».
Il centrosinistra parla di Laziogate. La Casa delle libertà reagisce gridando al «complotto politico delle procure»: a due mesi dalle elezioni nazionali, non può che trattarsi di «inchiesta a orologeria». I pm in realtà avevano chiesto gli arresti nel settembre 2005: il ritardo è dovuto al fatto che il giudice per le indagini preliminari a cui erano stati chiesti gli arresti, Beatrice Sechi, è andata in maternità, per cui un nuovo giudice, Paola Belsito, ha dovuto ristudiare da zero tutti gli atti, oltre a dover gestire centinaia di altri fascicoli ordinari.
Traffico di tabulati. Le polemiche politiche (alcune montate sul nulla: non è vero che fosse spiata anche la diessina Giovanna Melandri) fanno intanto passare quasi sotto silenzio le altre scoperte dei carabinieri che lavorano per la procura di Milano. Un’investigatrice milanese, Laura Danani, già rappresentante legale della Miriam Tomponzi srl, una delle più famose agenzie italiane, finisce in carcere con una valanga di accuse di spionaggio telefonico. La procura la intercetta mentre detta a un complice un vero e proprio tariffario per reclutare talpe in tutte le compagnie telefoniche: «Allora, ascolta il chi è: Omni 220 euro, Tim 150, Wind 200, Tre 200, fisso 250». Per la prima volta entrano nell’inchiesta anche i tabulati telefonici: non intercettazioni di conversazioni in corso, ma dati sugli orari, durata e numeri chiamati in passato, che permettono comunque di carpire molti segreti dell’utente (dal nome dell’amante ai contatti con spacciatori, prostitute, aziende concorrenti, rivali personali). Anche per i tabulati si parla di prezzi, cioè di tangenti da versare a dipendenti infedeli delle società telefoniche: Danani: «Traffico: avanti e indietro... entrata e uscita?». Nembrini: «Sì, due mesi a 1.500».
Ma in questa storia spunta anche Cipriani: l’ordine d’arresto rivela che Laura Danani è indagata insieme a lui per un’altra falsa verifica fiscale della guardia di finanza. I due soliti marescialli, gli stessi di Viterbo, si erano presentati con un falso verbale di accertamento tributario nella sede di un’agenzia pubblicitaria di Milano, la G&A srl. L’obiettivo: spiare la contabilità su incarico di un ex socio, che quando si vede puntualmente consegnare da Danani i documenti aziendali fotocopiati dalla «guardia di finanza parallela di Cipriani», in effetti «si meraviglia che sia stato possibile acquisirli legalmente», ma paga comunque 6.700 euro alla sua investigatrice così ben introdotta.
L’archivio di Cipriani. La stessa ordinanza di custodia addebita a Cipriani di aver fatto eseguire ai due marescialli bolognesi corrotti almeno cinque false verifiche fiscali: oltre a Viterbo e Milano, i finanzieri doppiogiochisti hanno spiato ditte di Ferrara, Asti e Pescate. Ecco perché nel maggio 2005, contemporaneamente al blitz contro Tavaroli, la procura fa perquisire anche gli uffici e la casa di Cipriani. E riesce a sequestrargli un archivio informatico (soprattutto dvd) con i resoconti di una massiccia attività di sorveglianza fisica: centinaia di pedinamenti eseguiti privatamente da veri appartenenti alle forze dell’ordine, in cambio di tangenti. L’inchiesta è ancora segreta e la riservatezza dei magistrati ha favorito montature giornalistiche particolarmente sospette. Questo troncone d’indagine in realtà non riguarda lo spionaggio telefonico, ma decine di casi di corruzione in tutte le forze di polizia: soldi per spiare personalmente gli obiettivi designati da Cipriani.
Di questi pedinamenti abusivi, l’unica vittima certa per ora è Bobo Vieri, che fu seguito giorno e notte quando giocava nell’Inter, probabilmente per capire perché non rendeva più. La società nerazzurra aveva commissionato anche un’altra investigazione privata, anche questa lecita fino a prova contraria, contro l’arbitro Massimo De Sanctis, il fischietto condannato quest’estate per i favori a Luciano Moggi: allora ai pm di Milano, però, era arrivato solo l’esposto di un altro ex arbitro, senza concrete denunce da parte degli interisti danneggiati. Ora Cipriani è accusato di associazione per delinquere finalizzata alla corruzione di decine di appartenenti alle forze dell’ordine. L’inchiesta riguarda cinque anni di «investigazioni clandestine e illecite», dal 2000 fino alla perquisizione del 2005.
C’è una lunga serie di fatti ancora tutti da chiarire. Nel 2004 avviene un’incursione elettronica nei computer di top manager del gruppo Rizzoli-Corriere della sera, proprio quando in via Solferino stanno per arrivare il nuovo direttore Paolo Mieli e l’amministratore delegato Vittorio Colao. A Bergamo è sotto inchiesta una dipendente del Cnag, il centro Telecom che fornisce alle procure i dati richiesti legalmente, accusata di aver fornito tabulati a tre sottufficiali del Ros che li usavano per estorcere denaro a imprenditori.
C’è poi la storia dei dossier con intercettazioni illegali a due politici, Piero Fassino e Pietro Folena, e al presidente dell’Anas Vincenzo Pozzi: scoperti nel maggio 2005 nella casa romana di Giovanbattista Papello, massone e collaboratore dell’allora ex viceministro Ugo Martinat (An), in contatto con quella Sipro e quel Di Ganci citato da Tavaroli come origine di tutti i suoi guai.
E ci sono le inspiegabili fughe di notizie sulle indagini svolte da alcune procure. A Milano filtrano magicamente all’esterno le privatissime discussioni fra due pm, Fabio De Pasquale e Alfredo Robledo, sull’opportunità o meno di arrestare il consulente inglese di Silvio Berlusconi, David Mills; e nel dicembre 2003 era «scappata» la notizia dell’indagine segretissima in corso sui rapporti tra l’allora presidente della Provincia Ombretta Colli e l’imprenditore Marcellino Gavio. A Roma si scopre che esistono talpe pronte ad avvertire delle indagini Stefano Ricucci e altri indagati per le scalate Rcs e Antonveneta; e arrivano misteriosamente sul Giornale le intercettazioni delle telefonate fra Giovanni Consorte e Piero Fassino, che non erano mai state trascritte e che dunque non erano a disposizione neppure dei magistrati.
C’è in Italia un’unica centrale abusiva di spionaggio, utilizzata con fini diversi da politici, imprenditori, investigatori privati e uomini dell’intelligence?
Il tesoretto all’estero. Questa è una storia di spie, ma soprattutto di soldi. Ricostruendo la provvista finanziaria usata da Cipriani per comprarsi una villa da 2 milioni di euro a Firenze, intestata a un’immobiliare dal nome indicativo (Il labirinto), i pm risalgono a una rete di conti bancari, intestati a società offshore tra il Lussemburgo e Londra. Proprio questo ora è uno dei capitoli principali dell’indagine, che ha portato la procura di Milano a spedire rogatorie in mezzo mondo. Molti dei soldi che Cipriani ha nascosto all’estero arrivano da Pirelli e Telecom: Tavaroli è accusato di aver liquidato a società estere riconducibili a Cipriani circa 20 milioni di euro in sette anni; soldi usciti dalle casse di Pirelli e Telecom, come corrispettivo per attività d’investigazione che si dichiarano svolte fuori dall’Italia.
Il problema è che, secondo la procura, Cipriani non ha mai fatto alcuna indagine all’estero per il gruppo Pirelli-Telecom: i lauti corrispettivi accreditatigli dalla security di Tavaroli sarebbero coperti soltanto da fatture false. Se l’accusa è fondata, resta da capire perché il gruppo Pirelli-Telecom abbia sborsato 20 milioni di euro per «investigazioni inesistenti». Di questo presunto tesoretto estero, più di metà è già finita sotto sequestro giudiziario, su richiesta dei pm milanesi, tra la fine del 2005 e i primi mesi del 2006. Ma le rogatorie internazionali continuano.
Siamo così arrivati al culmine dell’indagine sulla rete degli spioni privati. Il capitolo più recente è quello sul traffico di tabulati ed è il più intossicato da notizie parziali, dubbie o completamente false. Certo è che la procura di Milano solo negli ultimissimi mesi ha acquisito nuovi elementi di prova su un presunto traffico di tabulati telefonici gestito non da impiegati periferici, ma direttamente da funzionari o dirigenti della divisione sicurezza del gruppo Tim-Telecom.
La grande beffa. Tra l’aprile e il luglio 2006 si gioca una partita mortale. Ai primi di giugno, Telecom compie un’ispezione interna (internal audit) che appura che i sistemi per acquisire legalmente i tabulati telefonici consentivano anche accessi anonimi. All’interno di Telecom, insomma, c’era chi poteva spiare i numeri chiamati dai clienti senza lasciare traccia. L’audit è firmato dal responsabile del controllo interno, Fabio Ghioni, uomo molto vicino a Tavaroli e per lunghi anni consulente delle procure, a Milano, a Bologna, a Roma. Non contiene nomi di sospettati: è un rapporto tecnico che indica le falle della struttura, mostrando in particolare come fosse possibile accedere ai dati telefonici senza «logarsi», cioè appunto senza lasciare traccia.
La stessa Telecom presenta un esposto alla procura di Milano in cui si espongono i risultati dell’audit. Il rapporto Telecom viene raccontato dal settimanale L’Espresso, che ne indica come effettivo autore Adamo Bove, ex poliziotto della Digos diventato nel 1998 capo della sicurezza di Tim. Negli stessi giorni, però, contro Bove parte una manovra insidiosa, avvolgente, mortale. Il 5 luglio era stato arrestato Marco Mancini, numero due del Sismi, accusato con altri funzionari del servizio di essere coinvolto nel sequestro dell’ex imam Abu Omar, rapito da uomini Cia a Milano il 17 febbraio 2003.
Attenzione: Bove è l’uomo che ha permesso la grande beffa al Sismi. Lui, che gestiva il contratto coperto da segreto di Stato sui cellulari Telecom del Sismi, nell’aprile 2006 ha fornito alla Digos di Milano, su regolare richiesta della magistratura, i numeri dei telefoni riservati di Mancini e degli altri funzionari del servizio indagati. Così gli intercettatori per professione sono finiti intercettati. A giugno parte l’operazione contro Bove, che viene indicato come il responsabile delle irregolarità in Telecom. L’obiettivo sembra: dannare Bove per salvare Tavaroli. Qualcuno soffia la falsa notizia (smentita ufficialmente dai pm milanesi e romani) che Bove fosse indagato per i furti di tabulati. Nella trappola cadono anche ottimi giornalisti, che per i disinformatori sono i più preziosi: il 10 giugno, anche il Sole 24 ore fa il nome di Bove, che a partire da quel momento, come confermeranno i suoi familiari, comincia a sentirsi vittima di nemici interni alla sua azienda e a temere di diventare il capro espiatorio di colpe altrui.
Il 21 luglio 2006 Adamo Bove muore, precipitando da un viadotto della tangenziale di Napoli.
Intossicazioni informative. La stessa falsa notizia sulle responsabilità di Bove era stata passata da Fabio Ghioni a due giornalisti di Libero (la «fonte Betulla» Renato Farina e Claudio Antonelli) che l’avevano subito riferita a un funzionario del Sismi, Pio Pompa, il quale ne aveva discusso immediatamente con il direttore del servizio segreto militare, il generale Nicolò Pollari. Intercettati nell’altra inchiesta (quella sul sequestro dell’imam Abu Omar), Pompa e Pollari avevano fatto proprie le false accuse a Bove. Pompa aveva riferito che dentro Telecom erano state fatte «richieste fuori protocollo... tra virgolette, di tabulati telefonici». Il capo del Sismi aveva chiesto: «Ma fatti da chi?». E Pompa: «Fatti da Bove... l’altro».
I due informatori Sismi di Libero aggiungono che, secondo la loro fonte Fabio Ghioni, esisterebbe una supertestimone, C.P., ex collaboratrice di Bove, che avrebbe fornito alla procura una lista di una ventina di numeri spiati, tra cui il cellulare del banchiere romano Cesare Geronzi. Questo primo minielenco di tabulati è molto strano: mischia nomi d’ipotetici integralisti islamici, che stando agli amici del Sismi sarebbero stati controllati da Telecom senza l’autorizzazione della magistratura (e secondo Tavaroli proprio da Adamo Bove, dietro richiesta degli 007 italiani della divisione antiterrorismo), e numeri di esponenti invece notoriamente moderati della comunità islamica milanese, mai indagati e considerati addirittura i rivali interni dei presunti fiancheggiatori delle cellule jihadiste.
In un’intervista all’Espresso, Tavaroli sostiene che in un caso, uno solo, aveva accettato di passare informazioni al Sismi: «Dopo gli attentati di Madrid, l’11 marzo del 2004, Mancini mi ha chiesto a chi appartenesse un numero di cellulare che i servizi segreti spagnoli ritenevano importante. Ne ho parlato con il mio amico Adamo Bove e assieme abbiamo deciso di consegnare al Sismi la cosiddetta anagrafica. C’erano stati più di 200 morti. Era contro le regole, lo so, ma lo rifarei ancora oggi».
Strana rivendicazione: il fatto non trova conferma in alcuna carta processuale; anzi, il numero di cellulare che servirà per incastrare «Mohammed l’Egiziano», considerato la mente dell’attentato di Madrid e arrestato in Italia il 7 giugno 2004, è immediatamente indicato dalla polizia spagnola alla polizia italiana, senza alcun intervento del Sismi.
Ma nella vicenda dell’audit c’è qualcosa di ancor più strano. I tabulati trafugati abusivamente dall’interno del gruppo Telecom sono in realtà «migliaia». I numeri riempiono centinaia di fogli: il dossier è alto quasi mezza spanna, come un elenco del telefono. Non è stata la sicurezza di Telecom a passare questi tabulati alla procura: i pm li hanno scoperti autonomamente, sentendo una lunga serie di testimoni, tutti importanti, ma nessuno decisivo. Il sistema Radar, descritto negli articoli che esasperarono Bove, è in realtà un sofware attivato fin dal 1999 per consentire i controlli legali chiesti dalla magistratura. È quindi fuorviante accusare qualunque utilizzatore di Radar: l’inchiesta in realtà mira a identificare quei funzionari o dirigenti che potevano effettuare accessi anonimi. Inoltre Radar non è l’unico sistema d’analisi dei tabulati: ne esisterebbero almeno altri due, assolutamente riservati.
E non basta. Contrariamente alle notizie diffuse subito dopo la sua morte, Adamo Bove non solo non era indagato, ma a Milano non era mai stato sentito neppure come testimone, mentre a Roma rivestiva addirittura l’opposta posizione giuridica di «denunciante»: quando aveva letto il suo nome sui giornali, si era tutelato presentando al pm romano Pietro Saviotti, che indaga su una costola del Laziogate, un «esposto a propria tutela».
In allegato, Bove aveva consegnato al pm romano una sua relazione tecnica che identifica le postazioni e i metodi per acquisire tabulati senza lasciare tracce. Capire da dove e come venivano realizzati gli accessi anonimi è naturalmente la premessa tecnica per scoprire chi fossero gli spioni. Dall’inizio dell’estate una fidata squadra di carabinieri di Milano sta controllando numero per numero l’intero elenco dei tabulati abusivi, per identificare chi fosse l’effettivo utilizzatore di ogni utenza e quindi chi potesse avere interesse a spiarla. È questo in realtà il lavoro più importante dell’inchiesta sui tabulati.
A questo punto, però, è chiaro che l’indagine sugli spioni privati (Tavaroli-Cipriani) diventa tutt’uno con un’altra indagine: quella sul sequesto di Abu Omar. Per questo reato sono ricercati più di 20 agenti della Cia e sono sotto indagine i vertici del Sismi: il direttore Nicolò Pollari e i capidivisione Marco Mancini e Gustavo Pignero, oltre a numerosi capicentro e funzionari del servizio.
Telecom Italia, del resto, secondo quanto emerge dalle indagini è un vero centro d’attrazione per le spie: ha tra i suoi collaboratori Gian Paolo Spinelli, mitico capocentro della Cia a Mogadiscio, oggi ufficialmente in pensione, ma attivo nella sicurezza privata. Aveva progettato di andare a lavorare in Telecom anche Bob Lady, il capoantenna Cia a Milano ricercato per il rapimento di Abu Omar. Un posto in Telecom viene offerto, da Tavaroli, anche a «Ludwig», il maresciallo del Ros carabinieri Luciano Pironi, che ha confessato d’aver partecipato al sequestro. C’è anche chi fa il percorso inverso, come Pio Pompa, dipendente e poi consulente Telecom, che diventa infine funzionario del Sismi, esperto in Osint (Open Source Intelligence), intesa però come la vecchia, cara intossicazione informativa, con giornalisti da blandire o da tenere a libro-paga.
È chiaro dunque che le due indagini, su Telecom e sull’imam rapito dalla Cia, sono diventate una cosa sola e che s’incrociano anche con l’inchiesta sulla morte di Adamo Bove. Che rapporti ci sono tra quanto avveniva nella Telecom di Tavaroli e quanto accadeva nel Sismi di Mancini?
Il personaggio/Fabio Ghioni, l’hacker delle procure
che fece paura a Adamo Bove
Oggi è uno dei personaggi centrali nelle inchieste di Milano e Roma. Grande amico di Giuliano Tavaroli, Fabio Ghioni è il responsabile Technology and Information Security di Telecom. Ma si vanta di aver cominciato come hacker, giovanissimo, e già a 18 anni di essere stato scelto, via internet, come collaboratore da una non precisata «agenzia di sicurezza americana». Poi lavora all’Agusta, ma comincia a frequentare la procura di Milano: si offre al pm Elio Ramondini come esperto di internet nel momento in cui le nuove Br cominciano a usare il web per inviare le loro rivendicazioni. Si veste in modo vistoso, impermeabile e stivali pitonati, e fa coppia fissa con «Indio», un ex ispettore della Digos anch’egli consulente informatico della procura.
I due collaborano alle indagini sull’omicidio di Marco Biagi, poi a quelle sui terroristi islamici. Propongono un ombrello informatico capace di controllare le comunicazioni web, un piccolo Echelon all’italiana. Per questo vengono compensati con diverse migliaia di euro, pagate dalla procura di Milano e poi da quelle di Bologna (pm Paolo Giovagnoli) e di Roma (pm Pietro Saviotti). Risultati? Discutibili. Ghioni individua il computer da cui sarebbe stata spedita la rivendicazione Biagi: ma è quello di una stimata ispettrice della Digos, M.G.P., che se l’era spedito a casa per lavorarci su anche dopo le ore d’ufficio. Poi concentra le indagini su un computer installato in una sede dell’Alenia in Campania: una pista che si dimostra inconsistente. Ghioni sembra insomma prendere dalle procure più di quanto dà. A giugno semina false notizie su Adamo Bove, che comincia a temere di essere pedinato e di diventare il capro espiatorio della vicenda Telecom. Il 21 luglio 2006 Bove si getta da un viadotto della tangenziale di Napoli. (gb)
La seconda parte dell'inchiesta:
Abu Omar, il corpo del reato
