Giornalismo & patriottismo
di Enrico Deaglio
Una questione un po di giornalismo e un po
di patriottismo. Questo il senso dellinchiesta che
«Diario» presenta in queste pagine.
La storia è figlia dei nostri tempi (con elementi
antichi e altri molto moderni) e nasce in una Londra che
è oggi indubbiamente il crocevia tra politica e giornalismo,
con uno scienziato nucleare suicida, i maneggi per rendere
più sexy le armi di distruzione di massa e un primo
ministro perlomeno enigmatico. In questo contesto, allinizio
di agosto, il settimanale «The Economist» pubblica
una lunga inchiesta su Silvio Berlusconi e pone al presidente
del Consiglio 28 domande molto dettagliate che riguardano
le sue pendenze giudiziarie, la sua politica nei confronti
della magistratura, lorigine opaca delle sue fortune.
Il direttore del settimanale, Bill Emmott, non usa eufemismi:
considera Silvio Berlusconi un oltraggio al popolo italiano,
«il peggio della vecchia Italia» e una minaccia
per la nuova Europa.
«The Economist» è stato fondato nel 1843.
In quegli anni a Londra i latifondisti inglesi si opponevano
alla nuova legge sul commercio del grano (la globalizzazione
di allora) e Karl Marx metteva a punto il suo migliore short
cut («Il Manifesto», la globalizzazione di allora).
A spiegazione delle sue origini, il giornale si dichiara
sostenitore «dellintelligenza, portatrice di
progresso, contro unindegna, timida, ignoranza che
questo progresso ostacola», come è scritto
nella gerenza. Cronista oltremodo attento e nello stesso
tempo ricercatore del vero capitalismo, quello libero, romanticamente
indenne dagli abusi, il settimanale londinese ha preso posizione
per le droghe libere, contro Pinochet, ha lodato (in tempi
diversi) sia Thatcher sia Blair, e (in tempi diversi) sia
Bush sia Clinton, ha scavato nei torbidi segreti bancari
del francese Credit Lyonnais, ha approvato la guerra contro
lIraq ed è alfiere da tempo immemore dellabolizione
della pena di morte.
Quella dell«Economist» contro Berlusconi
è una campagna che dura da almeno due anni, quando
lo considerò unfit (moralmente inadatto) a guidare
lItalia. Il giornale, semplicemente, non lo sopporta.
Lo considera un insulto al capitalismo liberale.
Con un milione di copie vendute ogni settimana, e con il
peso della sua storia, «The Economist» non passa
certo inosservato. E così, quando ha preso di mira
il nostro presidente del Consiglio, le reazioni italiane
si sono fatte sentire. Rozzamente, la presidenza del Consiglio
lo ha incluso nel «complotto comunista» e ha
dato mandato ai suoi avvocati di portarlo in tribunale,
ricordando peraltro che Berlusconi gode del suffragio elettorale.
Lopposizione lo sbandiera, ma non più di tanto:
nessun politico ha infatti preso a cuore le 28 domande.
Le televisioni pubblica e privata (ambedue sotto il controllo
di Berlusconi) non ne hanno parlato. La carta stampata ha
registrato la questione con un certo sussiego. Nei vari
commenti che si sono letti, è trasparso un certo
«ma che vogliono questi inglesi?».
«Diario» ha dedicato al tema due dei suoi numeri
speciali («Berlusconeide», 30 marzo 2001 e «Berlusconeide
2, Le carte», 1 novembre 2002) e conosce bene i fatti
di cui parlano i nostri colleghi londinesi. Abbiamo apprezzato
la schietta ricostruzione dei fatti e lattenzione
a certi particolari che forse a noi italiani erano sfuggiti;
ricordiamo nel contempo che i giornalisti italiani sulla
carriera di Silvio Berlusconi hanno già pubblicato
perlomeno trenta libri e centinaia di inchieste e milioni
di persone sono scese in piazza per protestare contro i
suoi attacchi alla magistratura.
Per cui, da patrioti il patriottismo è soprattutto
la vergogna nei confronti di chi ci governa abbiamo
esaminato le 28 domande poste dall«Economist»
alle quali Silvio Berlusconi non ha voluto rispondere. Stiamo,
in effetti, parlando di questioni piuttosto pesanti: corruzione,
mafia e associazione a una pessima loggia segreta, per indicarne
tre. Abbiamo anche utilizzato alcune rapsodiche affermazioni
che lo stesso Silvio Berlusconi ha centellinato su questi
temi, ma purtroppo il suo contributo risulta piuttosto contraddittorio.
«Diario» vi propone ora una risposta esauriente
alle 28 domande che, secondo noi, il presidente del Consiglio
potrebbe fare sua. Ci auguriamo che le forze politiche che
operano in questo Paese prendano atto di quanto scriviamo.
Tim Laxton, per «The Economist» ha curato linchiesta
su Silvio Berlusconi. Gianni Barbacetto, inviato di «Diario»,
ha curato le risposte alle sue domande. (e.d.)
Ventotto risposte. Obiezioni?
di Gianni Barbacetto
Il giornalismo si fa ponendo domande e pretendendo risposte.
Lo ricorda Bill Emmott, direttore dellEconomist, in
unintervista allUnità di Furio Colombo
in cui ha spiegato i motivi della grande inchiesta su Silvio
Berlusconi pubblicata allinizio dagosto. Non
era certo un attacco politico su scala europea fomentato
dalla sinistra; non uno sfogo da Ecomunist; né una
campagna anti-italiana; non una «vendetta personale
contro un uomo daffari di successo». Era, semplicemente,
giornalismo: «LEconomist ama i businessmen di
successo», ha dichiarato Emmott. «Siamo una
rivista del capitalismo. Celebriamo il libero mercato. Abbiamo
trascorso 160 anni apprezzando il successo del capitalismo.
Ma siamo contro labuso del capitalismo, quando cerca
di distorcere le leggi. Siamo contro la corruzione delle
leggi e labuso del potere politico a vantaggio personale...
È nostro giudizio che Berlusconi come businessman
e poi come politico porti discredito al mondo degli
affari e ai veri principi del capitalismo che lEconomist
rappresenta e sostiene con orgoglio. Berlusconi è
importante perché danneggia la causa del successo
negli affari».
E dunque, Signor Berlusconi, «answers, please».
Per favore risponda a 28 domande poste dai giornalisti dellEconomist
non in nome delleversione, ma del capitalismo. Perché
il premier italiano, argomenta Emmott, è un danno
per lItalia e gli italiani, ma anche per lUnione:
«Come potrà lEuropa ottenere dai Paesi
che hanno fatto domanda dadesione per esempio
quelli dellEuropa centrale e dellEst
che si disfino della corruzione, che separino il business
dalla politica, che istituiscano un sistema giudiziario
indipendente, mentre tra gli Stati fondatori della Comunità
cè un Paese governato da un uomo che sfida
la giustizia e i magistrati, che incoraggia la corruzione?».
Già, come farà?
In Italia, i «terzisti» evitano con cura di
affrontare il cuore del problema, di pretendere quelle risposte
alla pubblica opinione che chiunque fa politica deve dare,
sulle origini delle sue fortune economiche, sui rapporti
tra politica e affari, sulla legalità dei suoi comportamenti,
su eventuali amicizie pericolose. Diario queste domande
a Berlusconi le ha poste tutte, nel numero speciale Berlusconeide
e in cento altre occasioni, in compagnia di altri giornali
italiani una compagnia, in verità, non proprio
numerosa (e tutta trascinata in tribunale).
Ora un vecchio, prestigioso settimanale europeo le rimette
tutte in fila, quelle domande, e fa apparire noi meno paranoici
(ma allora avevamo ragione a insistere...) e una parte della
stampa italiana più distratta e pavida.
«Answers, please»: risposte, per favore, Mr
Berlusconi. Ma Diario vuole fare un passo in avanti: non
gli basta riproporre le domande, questa volta vuole dare
le risposte. Le risposte alle 28 domande poste dallEconomist
nella versione lunga della sua lettera aperta al premier
italiano, quella apparsa sul sito web del settimanale inglese.
Le risposte che Berlusconi ha già dato finora (poche
e insoddisfacenti). Le risposte che, secondo la nostra ricostruzione
dei fatti, potrebbe dare.
Le 28 domande dellEconomist si possono raggruppare,
per comodità, in cinque capitoli:
1. Il caso Sme
2. Gli altri processi
3. Le leggi su misura
4. Il mistero delle origini
5. La loggia P2
Alle 28 domande poste dallEconomist, Diario aggiungerà
qua e là altre domande, e quindi altre risposte,
che ritiene importanti. Ecco le domande dellEconomist,
ecco le risposte di Diario.
Le domande dell'Economist
Le risposte di Berlusconi
Le risposte di "Diario"
1. Il caso Sme
LEconomist
dedica una parte consistente del suo servizio al caso Sme,
la mancata vendita nel 1985 a Carlo De Benedetti, che già
possedeva la Buitoni, dellazienda alimentare pubblica
controllata dallIri. La cessione per 497 miliardi
di lire, già concordata con Romano Prodi, allora
presidente dellIri, fu bloccata dallintervento
di Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio, che chiese
allamico Berlusconi dintervenire. Subito si
misero in moto cordate alternative (la Iar messa velocemente
insieme da Berlusconi, che convocò in un ristorante
di Broni gli imprenditori Pietro Barilla e Michele Ferrero)
e strani personaggi (lavvocato Italo Scalera, limprenditore
Giovanni Fimiani).
Nessuno, in realtà, voleva comprare davvero la Sme,
con i suoi prestigiosi marchi (Cirio, Bertolli, De Rica...):
lobiettivo era quello di bloccare la prima privatizzazione
italiana, che avrebbe indebolito il potere dei partiti,
e di fermare De Benedetti, considerato da Craxi un avversario.
Loperazione riuscì. Dopo la miracolosa apparizione
di cordate alternative e il blocco della vendita, De Benedetti
aprì una vertenza giudiziaria per far valere gli
impegni già stipulati. Ma le sentenze, alla fine,
gli diedero torto: perché furono comprate, secondo
le accuse della procura milanese, che da molti anni sta
cercando invano di portare a termine il processo
con imputati i giudici che avrebbero venduto le loro sentenze
(Filippo Verde, Renato Squillante), gli intermediari che
li avrebbero pagati (gli avvocati Cesare Previti e Attilio
Pacifico) e il loro presunto mandante (Silvio Berlusconi).
Il presidente del Consiglio, imputato di corruzione in atti
giudiziari, si è rifiutato di rispondere alle domande
dei giudici. Si è presentato però in tribunale
e ha ottenuto di fare (il 5 maggio e il 17 giugno 2003)
«dichiarazioni spontanee»: due lunghi show,
monologhi in cui ha ricostruito la sua versione dei fatti,
ha gettato fango su Romano Prodi, ha infine chiesto «una
medaglia» per aver impedito la svendita sottocosto
della Sme.
Ora il processo è finalmente giunto alle fasi finali
e si riaprirà a settembre: per tutti tranne che per
Berlusconi che, come è noto, è diventato improcessabile
grazie a una legge (il cosiddetto «lodo Maccanico»)
che garantisce limmunità assoluta al presidente
del Consiglio e ad altre quattro alte cariche dello Stato.
LEconomist nella sua accurata ricostruzione dei fatti
si dilunga sulla figura e gli interventi di un imprenditore
citato da Berlusconi nel suo monologo del 5 maggio davanti
al tribunale: Giovanni Fimiani, titolare della Cofima (Compagnia
Finanziaria Mercato Alimentari), che come Scalera
e come la Iar aveva presentato allIri unofferta
più alta di quella di De Benedetti.
Le risposte di Berlusconi.
Versione 1: ero interessato alla Sme. Il 30 ottobre
1985, interrogato come testimone dal magistrato Luciano
Infelisi, che per primo ha indagato sulla vicenda Sme, Berlusconi
racconta di aver costituito una cordata dimprenditori
perché voleva acquisire le aziende alimentari pubbliche.
Versione 2: non ero interessato alla Sme. Il 5 maggio
2003, nelle sue «dichiarazioni spontanee» davanti
al tribunale di Milano, Berlusconi dichiara (smentendo ciò
che aveva detto nel 1985) di non aver mai avuto intenzione
dacquistare la Sme, ma di essere intervenuto nella
trattativa soltanto perché glielo aveva chiesto Craxi,
il quale voleva a tutti i costi bloccare De Benedetti. Dopo
aver chiesto una medaglia per esserci riuscito, Berlusconi
infila nel suo monologo una serie di errori: sostiene di
aver avuto, allepoca dei fatti, un «conto aperto
con De Benedetti, che mi attaccava ogni giorno dai suoi
giornali» ma De Benedetti è diventato
azionista di riferimento di Repubblica solo molti anni dopo;
cita Giovanni Tamburino, toga di Magistratura democratica,
che gli ha dato ragione in Cassazione ma Tamburino
non è mai stato di Magistratura democratica, non
è mai stato in Cassazione, non ha mai giudicato il
caso Sme; chiede che il tribunale acquisisca alcune lettere
di Craxi allallora ministro delle Partecipazioni statali
Clelio Darida ma queste sono già agli atti
da anni. Poi attacca Prodi, parlando non ai giudici, ma
ai media: non gli interessa convincere il tribunale di essere
innocente, ma gli elettori che anche il suo avversario non
è uno stinco di santo.
Nel secondo monologo, quello del 17 giugno, ripete cose
già ben note, per esempio, ai lettori di Panorama
o del Giornale: la testimone Stefania Ariosto sarebbe mitomane
e falsa; lintercettazione del colloquio tra giudici
al bar Mandara di Roma sarebbe manipolata; nel «fascicolo
virtuale» segreto numero 9520 della procura di Milano
sarebbero nascosti documenti essenziali per la sua difesa...
Non una spiegazione sui piccioli, come li chiama il pubblico
ministero Ilda Boccassini, sui soldi usciti a miliardi dai
conti Fininvest, passati agli avvocati e finiti sui conti
dei giudici romani.
Una sola ammissione, forse sfuggita nella foga: la Fininvest
aveva conti allestero (prima sempre negati) «perché
comperavamo film in tutto il mondo». Ma come mai anche
Previti viene pagato dai conti esteri, come fosse un film
straniero o un serial americano? «Era uno dei cento
avvocati del nostro gruppo», minimizza, ingeneroso,
lamico Silvio. E i pagamenti Fininvest erano anticipi
di parcelle: non è colpa nostra, fa capire Berlusconi,
se poi Previti li faceva arrivare chissà perché
sui conti di Attilio Pacifico, «che aveva un
ufficio di import-export di denaro»...
In definitiva Berlusconi, abituato al fai-da-te, invece
di spiegare, si loda, si giudica e si assolve: «Non
ho trovato nulla, non cè nulla, non una prova,
un indizio. Non cè neppure il movente».
E poi figurarsi dice Berlusconi allargandosi un po
se mai avrei fatto operazioni illecite lasciando
la firma, i segni della provenienza dei soldi... «Mi
sarebbe bastato prenderli dalla mia tasca...».
Signor presidente del Consiglio, sulla base della nostra
ricostruzione dei fatti, queste sono le risposte alle domande
sul caso Sme.
Le prove della corruzione, a differenza di quanto affermato
nelle «dichiarazioni spontanee», ci sono: i
movimenti di soldi dai conti Fininvest a quelli degli intermediari,
fino a quelli dei giudici romani. Anche il movente cè:
bloccare la vendita della Sme a De Benedetti, come chiestole
da Craxi nel 1985 e da Lei ammesso. Per Lei, era la proposta
che non si può rifiutare, loccasione di restituire
un favore: pochi mesi prima, nellautunno 1984, Craxi
era intervenuto, con uno strumento di legge passato alla
storia come «decreto Berlusconi», per riaccendere
le tre reti Fininvest oscurate il 16 ottobre 1984 dai pretori
di Roma, Torino e Pescara, i quali applicavano la legge
vigente secondo cui era illegittimo per un privato trasmettere
su tutto il territorio nazionale. Lei comincia a intromettersi
nel caso Sme poco prima che il decreto confezionato su misura
per Lei da Craxi diventi, nel 1985, legge dello Stato.
Quanto a Giovanni Fimiani (domande 2,3,4,5,6,7), è
facile pensare che si inserì nella compravendita
Sme, allora, su richiesta di Previti, come fece anche lavvocato
Italo Scalera, che di Previti era stato compagno di scuola.
Quello che ci sembra strano, è che sia stato citato
e valorizzato da Lei ora, nei suoi monologhi davanti al
tribunale: oggi chiunque operi nel settore sa che Fimiani
è un bancarottiere e che cerca inutilmente
di salvarsi, addebitando il crac non ai suoi errori,
ma a un complotto ai suoi danni, al ruolo peraltro
marginale avuto nella vicenda Sme. Condannato nel
1993 per il fallimento della sua azienda, nel 1999 è
già stato protagonista di un attacco a Prodi amplificato
dal quotidiano britannico Daily Telegraph e poi rivelatosi
fango, una manovra senza fondamento. Possibile che i Suoi
avvocati, i Suoi consiglieri non Le abbiano detto niente?
E la medaglia (domanda 8) per aver impedito una svendita
sottocosto? Non era il prezzo della Sme a interessare Lei,
né Craxi. Il risultato di quellintervento del
1985, in realtà, fu il blocco delle privatizzazioni
in Italia, rimandate di una decina danni. Per un decennio
ancora i partiti di governo hanno mantenuto saldo il loro
potere su imprese dogni tipo, da cui spremevano denaro,
poltrone, clientele. E la salute dei conti pubblici è
peggiorata, fino allorlo della bancarotta dello Stato.
Soltanto Mani pulite, nel 1992-93, e la necessità
di entrare in Europa hanno sbloccato la situazione e salvato
il Paese. Le Sue dichiarazioni al tribunale, dunque, non
si conciliano affatto (domanda 1) con una veritiera ricostruzione
dei fatti.
Altre domande, altre risposte. Una volta messi in fila
gli avvenimenti realmente accaduti, e non quelli evocati
da ricostruzioni di comodo, appare immediatamente chiaro
anche perché negli ultimi mesi il fronte berlusconiano
si sia tanto agitato attorno al fascicolo 9520. Come Lei
ben sa, si tratta dellormai famoso fascicolo aperto
dalla procura della Repubblica di Milano a metà degli
anni Novanta, allinizio dellindagine sulle toghe
sporche romane. La sua storia è simile a quella del
mitico «fascicolo virtuale» di Mani pulite:
la procura apre un fascicolo su un argomento ampio e i magistrati
vi inseriscono ogni atto dindagine che riguarda quellargomento;
poi quando un filone si definisce, le imputazioni
prendono forma e gli imputati acquistano un nome
il filone viene «stralciato», con un nuovo numero
di fascicolo, e diventa un processo. Il processo Sme, per
esempio, è uno di questi stralci, Imi-Sir un altro.
Ora, Lei e Previti sostenete che nel famoso fascicolo 9520
sono occultate prove fondamentali che dimostrerebbero la
vostra innocenza. In realtà dentro quel faldone segreto,
se cè qualcosa, è qualcosa che si riferisce
ad altri episodi di corruzione dei giudici romani, ad altre
sentenze comprate, eventualmente ad altri magistrati in
vendita al miglior offerente.
La procura di Milano ha affrontato processi soltanto nei
casi (tre) in cui è riuscita a raccogliere prove
che ha considerato solide, in cui ha ottenuto riscontri
e documenti bancari dallestero. Ma gli indizi sono
molto più numerosi, il sistema di corruzione del
palazzo di Giustizia di Roma ben più articolato di
quanto finora non sia emerso. Lo dice un testimone privilegiato,
tanto più attendibile in quanto interno a Forza Italia
ed ex sottosegretario allInterno nel Suo governo,
lavvocato Carlo Taormina, che nel 1996 dichiara pubblicamente:
«Quella che sta venendo alla luce è solo una
minima parte del marcio che si è sedimentato oltre
ogni limite a Roma».
Se è vero ciò che dice Taormina, allora un
certo numero di persone è da tempo in grande allarme,
perché ancora non sa che cosa la procura di Milano
sa. Poiché il fascicolo 9520 è segreto, neppure
noi sappiamo che cosa contenga. Ma sappiamo ciò che
già è emerso nei processi: per esempio, la
storia di Enrico Manca. Nulla di penalmente rilevante, sintende,
ma un bellesempio, molto significativo, di come andavano
(vanno?) le cose in Italia.
Dirigente del Psi, Manca dal 1986 al 1992 ha guidato, come
presidente, la Rai. In quegli anni ha scritto la parola
fine alla durissima competizione di mercato con i concorrenti
della Fininvest, arrivando a quella che è stata chiamata
la pax televisiva. Ora, nelludienza del 28 marzo 2001
del processo Sme, Manca è stato chiamato a testimoniare,
sulla base di alcuni documenti raccolti proprio nel fascicolo
9520. Che cosa gli ha chiesto il pubblico ministero Ilda
Boccassini? Dei suoi stretti rapporti con Cesare Previti,
che per Manca, presidente della Rai, rappresentava pur sempre
il «nemico», essendo uno dei più importanti
avvocati della concorrenza Fininvest. Eppure ciò
non ha impedito non solo numerosi e amichevoli incontri
tra i due nel salotto di casa Previti, ma neppure la strana
gestione di un tesoretto: sì, Previti, avvocato del
«nemico», gestiva (come fosse un banchiere privato)
il conto in Svizzera (in quegli anni illegale) del presidente
della Rai.
Sul tesoretto di Manca, Previti (quasi sempre attraverso
lavvocato Pacifico) fa affluire negli anni molti soldi:
180 milioni di lire nel 1989, 163 milioni nel 1990, 600
milioni nel 1992, 70 milioni nel 1993. Soldi personali,
garantisce Manca, non della Fininvest. Il conto in Svizzera
Previti-Manca sarà chiuso in tutta fretta il 18 marzo
1996: cinque giorni dopo larresto del giudice Squillante.
Ilda Boccassini pone al teste Manca una domanda anche sulla
vicenda P2. Sì, perché il nome di Manca era
negli elenchi di Gelli, ma nessuno oggi può scrivere:
«Manca era piduista». Lo impedisce una sentenza
del 1985, che dichiara Manca estraneo alla loggia segreta.
Suo avvocato in quella causa era Cesare Previti. Il giudice
che emise la sentenza era Filippo Verde (lo stesso accusato
di aver venduto la sentenza Sme).
Oggi Manca presiede un fantomatico istituto che documenta
«linnovazione multimediale». Recentemente
ha dichiarato al Corriere della sera di considerare le contestazioni
alla legge Gasparri sulle tv «una battaglia di retroguardia:
non si può mettere le brache al mercato per combattere
Mediaset».
No, non si può. Ma è proprio al mercato che
sono state messe le brache, anzi la camicia di forza, in
decenni di predominio berlusconiano imposto dalla politica:
dal decreto di Craxi alla pax televisiva di Manca, fino
alla Gasparri e al suo digitale allitaliana.
Signor presidente del Consiglio, cè qualcosa
che vorrebbe smentire, correggere, specificare, aggiungere?
2.Gli altri processi
LEconomist
stila una accurata lista dei processi che Berlusconi ha
dovuto affrontare, da quello per le tangenti alla Guardia
di finanza fino a quello sul lodo Mondadori, soffermandosi
particolarmente su David Mills, lavvocato londinese
(marito di Tessa Jowell, ministro nel gabinetto di Tony
Blair) che ha fondato la rete delle società estere
Fininvest.
Racconta dei tortuosi passaggi finanziari tra offshore della
Fininvest-ombra e ricorda la misteriosa vicenda del «Mandato
500». Il titolare di questo mandato, il tesoriere
di Berlusconi Giuseppe Scabini, attraverso la Fiduciaria
Orefici di Milano allinizio degli anni Novanta acquista
Cct per 91 miliardi di lire. Questi sono in gran parte trasformati
in denaro contante in una banca di San Marino, poi trasportato
da spalloni in Svizzera e accreditati nel 1991 sui conti
All Iberian.
A che cosa sono serviti quei 91 miliardi? Mario Moranzoni,
responsabile della tesoreria Fininvest, così spiega
loperazione al titolare della Fiduciaria Orefici:
«Sa, i politici costano molto... È in discussione
la legge Mammì...». Nel 1991, infatti, viene
stilato il piano delle frequenze, il fondamentale strumento
tecnico che rende operativa la legge Mammì sulle
tv. Ma in quellanno, ricorda lEconomist, dalla
Svizzera partono anche le tangenti per i giudici del lodo
Mondadori e i 21 miliardi della supertangente All Iberian
per Craxi.
Le risposte di Berlusconi.
Tutte le accuse sono prive di fondamento, sono interventi
giudiziari che in realtà mascherano un attacco politico,
sferrato a chi ha legittimamente vinto le elezioni. Non
so niente di tangenti, lho giurato anche sulla testa
dei miei figli. Ma i comunisti, sconfitti nelle urne, cercano
la rivincita attraverso la via giudiziaria. Colpevole è
la parte politicizzata della magistratura, che è
un cancro da estirpare. Io non sapevo nulla dei soldi dati
alla Guardia di finanza, che comunque nelle verifiche fiscali
blocca per settimane lattività delle aziende
e si comporta a volte come unassociazione a delinquere.
Della Mondadori sono diventato proprietario in modo assolutamente
legittimo. Abbiamo conti esteri, perché la Fininvest
opera in tutto il mondo e compera diritti televisivi in
tutto il mondo.
Signor presidente del Consiglio, sulla base della nostra
ricostruzione dei fatti, queste sono le risposte alle domande
sui Suoi altri processi.
Le sentenze Lhanno fatta uscire da una decina di processi
con la fedina penale pulita. Ma solo grazie alleffetto
combinato di attenuanti, prescrizioni, amnistia, insufficienza
probatoria. Dal punto di vista razionale, è difficile
credere che Lei, che aveva il controllo anche sulle più
piccole spese gestite dai suoi collaboratori, non sapesse
nulla, per esempio, delle tangenti pagate alla Guardia di
finanza per ammorbidire le verifiche fiscali in quattro
delle Sue società, Mondadori, Videotime, Mediolanum,
Telepiù (domanda 10). Del resto, il pagamento di
tangenti è stato accertato e i manager responsabili
sono stati condannati. Non solo: sono stati condannati per
falsa testimonianza due Suoi segretari (Marinella Brambilla
e Niccolò Querci) che, secondo le sentenze, hanno
mentito ai giudici proprio per proteggere il loro capo.
E comunque nessuno dei tanti collaboratori coinvolti in
vicende di tangenti è stato da Lei punito o licenziato.
Anzi: manager, assistenti, segretari, sono stati tutti premiati.
Molti perfino con un posto in Parlamento, qualcuno addirittura
nel governo.
È ritenuto provato anche il pagamento di 21 miliardi
di lire a Bettino Craxi, attraverso la società offshore
All Iberian, registrata a Jersey, nelle Isole del Canale:
è la più grande tangente mai versata in Italia
a un singolo uomo politico. In questo come in altri casi,
soltanto i tempi lunghi del processo Lhanno salvata
da una condanna, impedita dalla prescrizione del reato.
Lei ha sempre negato che All Iberian fosse una società
Fininvest, però la smentita è arrivata non
soltanto dalle sentenze, ma ormai perfino dai Suoi stessi
collaboratori. Attraverso All Iberian e il complesso sistema
di società e conti esteri chiamato «Fininvest
Grop B (very discreet)», è passata la tangentona
a Craxi, ma anche una serie di operazioni «riservate»
che vanno dalla scalata a società quotate in Borsa
(come Standa e Rinascente) senza la necessità dinformare
la Consob, allacquisizione del controllo di Telepiù
e Telecinco, aggirando le leggi antimonopolio in Italia
e in Spagna.
Le società della «Fininvest Group B»
(almeno 29) sono scatole vuote, senza dipendenti né
strutture amministrative proprie, che servono soltanto a
compiere in maniera anonima operazioni finanziarie proibite,
a produrre fondi neri, a coprire il loro vero proprietario.
Tra il 1989 e il 1996 la Fininvest-ombra ha spostato (come
documenta un rapporto della Kpmg stilato per conto della
procura di Milano) fondi neri per almeno 2 mila miliardi
di lire. Per questo Lei ha ricevuto unincriminazione
per falso in bilancio. Il giudice per le indagini preliminari
nel febbraio 2003 ha chiuso linchiesta con un proscioglimento
generale, constatando che è scaduto il tempo per
il processo, grazie alla nuova legge sul falso in bilancio
che abbrevia i tempi di prescrizione. Ha però negato
lassoluzione nel merito, spiegando che Lei e i suoi
coimputati (Suo fratello Paolo, Suo cugino Giancarlo Foscale,
i Suoi amici e manager Adriano Galliani e Fedele Confalonieri)
non possono dirsi innocenti.
David Mills (domande 9 e 13) è luomo chiave
della Fininvest-ombra. È lui che lha in gran
parte plasmata e gestita, da Londra. Non sappiamo dire quanto
Lei lo abbia incontrato direttamente, ma certamente ciò
che Mills ha fatto lha fatto per Suo conto. Mills
è oggi il più importante dei Suoi consulenti.
Ma è sempre Lei a prendere le decisioni strategiche
aziendali, anche dopo il Suo ingresso in politica. «Da
quando sono a Palazzo Chigi non mi occupo delle mie aziende»,
ha più volte ripetuto. Peccato che La smentiscano
alcuni testimoni proprio dallinterno di Mediaset:
«Ho continuato a parlare con Berlusconi della questione
Spagna fino allestate del 1994», racconta Oliver
Novick, direttore Corporate Development; «Le indicazioni
per lacquisto dei diritti tv continuavano a venire
da Arcore», aggiunge Marina Camana, ex segretaria
del capo della Silvio Berlusconi Communications, Carlo Bernasconi.
Nel 1994, come certamente ricorda, Lei era diventato per
la prima volta capo del governo. Ora quelle due testimonianze
hanno fatto decollare una nuova indagine su di Lei, con
laccusa di frode e falso in bilancio. Suoi coimputati
sono Mills, alcuni banchieri svizzeri, alcuni dei Suoi manager.
Tra i reati contestati, anche il riciclaggio. Due magistrati
milanesi, Fabio De Pasquale e Alfredo Robledo, stanno cercando
di far luce su una storia di diritti televisivi comprati
negli Stati Uniti e rivenduti a società della Fininvest
B (tra cui la Century One e la Universal One, registrate
nelle Isole Vergini britanniche), che poi le passavano,
a prezzi maggiorati, alle società della Fininvest
A. Risultato: i prezzi dei film acquistati sono stati gonfiati
di almeno 170 milioni di dollari, diventati fondi neri a
disposizione per operazioni «riservate».
È lultima indagine aperta su di Lei: si è
saputo che è indagato soltanto a metà giugno
2003. Ma potrebbe diventare cruciale perché, mentre
gli eventuali reati fiscali commessi tra il 1995 e il 2000
sono stati azzerati grazie al condono inventato da Giulio
Tremonti (Suo ex consulente tributario, diventato Suo ministro
dellEconomia), quelli del 1994 sono rimasti scoperti
e perseguibili. E, secondo i magistrati, «nei conti
Mediaset, a partire dal 1994, è stato sensibilmente
alterato il valore del patrimonio della società con
specifico riferimento ai diritti di trasmissione televisiva».
Poiché quelle «sensibili alterazioni»
hanno necessariamente influenzato, a catena, anche i bilanci
successivi al 1994, ne consegue che «nel 1996 Mediaset»,
secondo De Pasquale e Robledo, «è stata quotata
in Borsa sulla base di una falsa rappresentazione della
consistenza patrimoniale della società».
Unaccusa che, in un Paese normale, farebbe tremare,
insieme, Piazza Affari e Palazzo Chigi. In Italia, niente.
Per accorgersi del caso, gran parte della stampa ha atteso
che il ministro della Giustizia, ingegner Roberto Castelli,
bloccasse le rogatorie che i due incauti magistrati avevano
inoltrato verso gli Stati Uniti: Castelli sosteneva che
il «lodo Maccanico» fermava non soltanto i processi,
ma anche le indagini. Poi, dopo la rivolta di una parte
della Sua stessa maggioranza (Udc e An), linchiesta
ha potuto ripartire e ora De Pasquale e Robledo potranno
volare a Hollywood a interrogare i responsabili delle Majors
(Warner Bros, Paramount, Columbia Tristar, 20° Century
Fox, Mca Universal Studios) che avevano venduto a misteriose
società delle Isole Vergini i film poi miracolosamente
arrivati (a prezzi maggiorati) a Mediaset.
Poi ci sono i processi per le «toghe sporche».
Oltre a quello sulla Sme, vi è quello sul lodo Mondadori.
A Lei è stata rivolta laccusa di aver pagato,
attraverso lavvocato Cesare Previti, alcuni giudici
di Roma per ottenere una decisione a Suo favore sul lodo
Mondadori e dunque per poter ottenere la proprietà
della più grande casa editrice italiana. Poi per
Lei il processo è finito: il giudice delludienza
preliminare Rosario Lupo lha prosciolta; la procura
ha fatto ricorso alla Corte dappello, che nel giugno
2001 ha così deciso: per Lei è ipotizzabile
il reato di corruzione semplice, e non quello di concorso
in corruzione in atti giudiziari; concesse le attenuanti
generiche, il reato dunque è prescritto, poiché
risale al 1991 e la prescrizione, con le attenuanti generiche,
scatta dopo soli cinque anni. Prescritto, non assolto.
Fuori Lei, sono rimasti però nel gioco i Suoi coimputati
(gli avvocati Cesare Previti, Giovanni Acampora e Attilio
Pacifico, il giudice Vittorio Metta), condannati in primo
grado. Dunque (domanda 11) vi è stata corruzione.
Ma se un giudice ha venduto la sua sentenza e se alcuni
intermediari lhanno comprata, ci deve essere un mandante.
Previti non ha acquistato la sentenza Mondadori per sé.
Il mandante non può che essere Lei.
Del resto Lei ha ammesso di sapere (domanda 12) che esisteva,
intorno al tribunale di Roma, «un ufficio di import-export
di denaro», gestito dallavvocato Pacifico: dunque
Lei ha ammesso di sapere che a Roma le sentenze potevano
essere comprate e vendute. Lo sapeva a tal punto, che alcuni
miliardi di lire, usciti dai conti delle Sue società,
sono passati proprio per quell«ufficio».
Altre domande, altre risposte. Lei sostiene di essere
stato indagato dalla «magistratura politicizzata»
in risposta al Suo impegno in politica. Questo è
smentito dalle numerose indagini sul Suo gruppo avviate
già nel 1992-93. Ma addirittura la prima inchiesta
giudiziaria su di Lei risale a dieci anni prima, al 1983
quando, nel corso di unindagine su droga e riciclaggio
(poi chiusa senza alcuna conseguenza nel 1991), la Guardia
di finanza pose sotto controllo i Suoi telefoni.
Lei e i Suoi manager siete indagati anche allestero.
Anche verso la Spagna, infatti, hanno operato le offshore
della Fininvest-ombra: producendo oltre 100 miliardi di
lire di frode fiscale e violando la legge antitrust spagnola
per le operazioni compiute sullemittente Telecinco.
Il giudice istruttore anticorruzione di Madrid, Baltasar
Garzon Real, ha dovuto comunque sospendere il processo,
per limmunità dovuta ai parlamentari europei.
Signor presidente del Consiglio, cè qualcosa
che vorrebbe smentire, correggere, specificare, aggiungere?
3. Le leggi su misura
LEconomist
racconta ai suoi lettori che negli ultimi due anni, da quando
è tornato al governo, Berlusconi ha fatto varare
alcune leggi che hanno reso più difficile perseguire
il falso in bilancio, hanno tentato di rendere inutilizzabili
le prove giunte dallestero per rogatoria e hanno reintrodotto
nellordinamento italiano il «legittimo sospetto»,
che permette di chiedere lo spostamento del processo in
unaltra sede a ogni imputato che sospetti che i suoi
giudici hanno scarsa serenità ambientale.
Le risposte di Berlusconi.
Versione 1: nessuna legge su misura. La nuova legge
sul falso in bilancio era necessaria per modernizzare la
disciplina delle imprese, prima troppo rigida e inquisitoria.
Rogatorie e legittimo sospetto erano necessarie per aumentare
il garantismo nei confronti degli imputati: per impedire
che documenti falsi, non controllati, entrassero nei processi;
per garantire i diritti degli imputati, di tutti gli imputati,
davanti a giudici non sereni né imparziali.
Versione 2: solo tre su 350. «Abbiamo il record
di 350 disegni di legge e decreti legge... Se ci si riferisce
ai tre testi adottati con gli strumenti della democrazia
in risposta ad azioni derivanti dallesercizio di un
ruolo di funzionari della giustizia mirante ad attaccare,
con la giustizia, i nemici politici, ebbene si tratta solo
di tre casi su 350, quindi appena l1 per cento».
Questa incredibile ammissione Berlusconi lha fatta
davanti al Parlamento europeo il 1 luglio 2003, nella stessa
replica in cui ha dato del kapò al deputato tedesco
Martin Schulz che aveva osato criticarlo.
Signor presidente del Consiglio, sulla base della nostra
ricostruzione dei fatti, queste sono le risposte alle domande
sulle leggi su misura.
Le tre leggi sono state pensate non a Roma, ma a Milano,
nel contesto dei processi in cui Lei era imputato. Molte
delle eccezioni presentate in aula a Milano dai Suoi avvocati
(e respinte) si sono rimaterializzate in Parlamento a Roma,
sotto forma di proposta di legge. Del resto i Suoi due principali
avvocati, Gaetano Pecorella e Niccolò Ghedini, sono
anche deputati del Suo partito e il primo è presidente
della Commissione giustizia.
La nuova disciplina sul falso in bilancio (domanda 14) ha
risolto molti Suoi problemi giudiziari, depenalizzando e
riducendo i tempi della prescrizione. Sono stati così
chiusi alcuni processi (All Iberian 2: falso in bilancio
per non aver iscritto nei libri contabili della Fininvest
luscita dei 21 miliardi regalati a Craxi; consolidato
Fininvest: per non aver registrato nei bilanci la contabilità
delle società offshore; processo Lentini: per non
aver iscritto a bilancio il versamento in nero di una decina
di miliardi dalle casse del Milan a quelle del Torino calcio,
per lacquisto del calciatore Gianluigi Lentini). Quella
legge è stata poi utile, naturalmente, anche a molti
Suoi amici e collaboratori (tra cui Marcello DellUtri)
che hanno problemi giudiziari simili ai Suoi.
Il cambiamento delle norme sulle rogatorie (domanda 15)
avrebbe invece dovuto bloccare la possibilità dutilizzare
nei processi di Milano sulle «toghe sporche»
le prove arrivate dallestero (i documenti bancari
che attestano i passaggi di denaro). Prima i Suoi legali
hanno fatto, a monte, una strenua opposizione, specialmente
in Svizzera e Gran Bretagna, alla trasmissione dei documenti
in Italia. Poi, persa quella battaglia, hanno escogitato
il modo di bloccare a valle lutilizzabilità
di quelle carte.
Ma il tribunale di Milano e poi quelli di gran parte dItalia
hanno ritenuto prevalente, rispetto alla nuova legge, la
forza delle convenzioni internazionali: così hanno
continuato a utilizzare le prove correttamente raccolte
allestero. A questo punto, è spuntata la legge
sul «legittimo sospetto» (domanda 16), per bloccare
comunque, in extremis, i processi di Milano. La formulazione
definitiva della legge, voluta dal presidente della Repubblica,
ha reso però più circoscritto, rispetto al
testo iniziale, il concetto di legittimo sospetto, tanto
che la Cassazione ha respinto le richieste dei difensori
di Berlusconi e Previti.
Durante liter per lapprovazione di queste tre
leggi, in Italia è nato un grande movimento (detto
«dei girotondi») che ha coinvolto milioni di
persone e dato vita a imponenti manifestazioni di protesta
contro quelle che sono state chiamate «leggi su misura».
Altre domande, altre risposte. A questo punto, dopo il flop
delle leggi su rogatorie e legittimo sospetto, è
stato necessario ripescare lidea di un parlamentare
dellopposizione, Antonio Maccanico, che aveva proposto
la sospensione dei processi per le cinque più alte
cariche dello Stato, tra cui il presidente del Consiglio
(che comunque è lunico ad averne bisogno).
Così nel giugno 2003 è stata votata in fretta
e furia quella legge che ha risolto definitivamente (se
passerà lesame della Corte costituzionale)
ogni Suo problema giudiziario in Italia.
Ma le leggi su misura non sono solo le tre citate dallEconomist.
Quelle sono le più clamorose, ma non le uniche. Per
bloccare uno dei due processi in corso a Palermo contro
il senatore Marcello DellUtri è stata introdotta
una norma che vieta dutilizzare come prove a carico
di parlamentari intercettazioni e tabulati telefonici. Per
bloccare il processo a Previti, dopo la prima condanna a
11 anni per Imi-Sir, è stata rapidamente approvata
in Parlamento la legge sul patteggiamento allargato, che
concede agli imputati di patteggiare la pena anche per reati
molto gravi, punibili con pene fino a cinque anni, ma che
soprattutto concede uno stop di 45 giorni ai processi in
corso, per dare modo agli imputati di riflettere se chiedere
o no il patteggiamento.
Una norma stravagante, che va contro la «ragionevole
durata» dei processi, ma che è servita a Previti
per bloccare il processo per tre mesi: 45 giorni per pensare
al patteggiamento (anche se ha già detto che non
lo chiederà) più 45 giorni di pausa feriale
estiva. Grazie a questa legge assurda contro la quale
è già stata sollevata leccezione dincostituzionalità
lintero sistema processuale italiano rischia
un ingorgo senza precedenti. Ma intanto Previti ha guadagnato
altri tre mesi: la prossima udienza del processo Sme è
infatti convocata per il 29 settembre (giorno, per uno scherzo
del destino, del Suo compleanno). E magari nel frattempo
arriverà qualche altra legge su misura.
Al pubblico ministero Ilda Boccassini, che in aula ribadiva
che comunque laccusa non concederà mai il proprio
consenso (vincolante) al patteggiamento, anche perché
per Previti la pena richiesta (11 anni) è ben superiore
ai cinque previsti dalla legge, lavvocato Carlo Sammarco,
difensore di Previti, ha risposto: «Il pm confonde
il presente con il futuro. E poi tra 45 giorni non sappiamo
cosa accadrà al pm...». Una battuta, solo una
battuta. Riferita probabilmente allinchiesta ministeriale
aperta nei confronti della procura di Milano e allindagine
penale avviata dalla procura di Brescia. Ma una battuta
che suona sinistra e agghiacciante, nellItalia dei
magistrati uccisi a colpi di kalashnikov o di tritolo, tanto
più se rivolta a chi ha lavorato su importanti indagini
di mafia, ha visto morire lamico e maestro Giovanni
Falcone e poi ha contribuito a farne arrestare gli assassini.
Signor presidente del Consiglio, cè qualcosa
che vorrebbe smentire, correggere, specificare, aggiungere?
4. Il mistero delle origini
LEconomist
si addentra con grande impiego di dati, cifre e tabelle
nelle operazioni che stanno allorigine dellimpero
berlusconiano, ripercorrendo le più oscure tra le
manovre finanziarie realizzate (spesso attraverso prestanome
e «franco valuta», quindi senza trasparenza
sui soggetti che davvero operano) dalle sue innumerevoli
società della prima ora (Cantieri Riuniti Milanesi,
Sogeat, Palina, Edilnord, Fininvest srl, Fininvest Roma,
Coriasco...).
Si interroga sul ruolo del commercialista siciliano Giovanni
Dal Santo. E sulle transazioni con la giovane marchesina
Anna Maria Casati Stampa.
Le risposte di Berlusconi.
Tutto regolare, tutto a posto. Io e la mia famiglia siamo
i soli proprietari delle mie aziende. Le operazioni finanziarie
compiute e la struttura societaria scelta dai miei consulenti
erano volte a ottenere un risparmio fiscale.
Signor presidente del Consiglio, sulla base della nostra
ricostruzione dei fatti, queste sono le risposte alle domande
sulle origini delle sue aziende.
Lei, giovane intraprendente, racconta di essere diventato
imprenditore, nei primi anni Sessanta, proponendo al Suo
principale di costituire insieme una società, cinquanta
e cinquanta. Il Suo principale era Pietro Canali, un costruttore
milanese cliente della Banca Rasini (dove lavorava Suo padre
Luigi, che a fine carriera era diventato direttore generale).
Canali Le aveva dato lavoro già dagli anni delluniversità
e Lei si era dimostrato abile, tanto da diventare rapidamente
direttore commerciale dellimpresa di Canali. La società
si è fatta ed è stata battezzata Cantieri
Riuniti Milanesi. Loperazione che porta subito a termine
è ledificazione di un palazzo rivestito di
piastrelle blu in via Alciati, alla periferia di Milano.
Lei era riuscito ad avere i permessi comunali per costruire,
e questo è il Suo contributo alla società.
Per il resto, lesperienza la mette Canali, i soldi
arrivano dalla Banca Rasini.
Dopo quel colpaccio, Lei non si ferma più. Tra il
1964 e il 1969 costruisce un intero quartiere residenziale
a Brugherio, nellhinterland milanese. Negli anni Settanta
edifica Milano 2, la città satellite nel comune di
Segrate. Tra il 1979 e il 1990 realizza a Basiglio una nuova
cittadella, Milano 3; costruisce il centro commerciale Il
Girasole a Lacchiarella; e progetta il villaggio residenziale
Costa Turchese, a sud di Olbia, in Sardegna.
A realizzare il Suo decollo imprenditoriale sono società
dietro cui è impossibile capire chi opera, e soprattutto
chi mette i soldi. Lurbanizzazione di Brugherio è
realizzata dalla Edilnord sas di Silvio Berlusconi e C.,
in cui Lei figura, insieme ad altri, come «socio dopera»
o «accomandatario», mentre soci «accomandanti»
sono Carlo Rasini e lavvocato daffari svizzero
Renzo Rezzonico, rappresentante di una finanziaria di Lugano,
la Finanzierungesellschaft für Residenzen Ag. I soldi,
dunque, arrivano dalla Svizzera, ma gli investitori restano
protetti dallimpenetrabile schermo di una finanziaria
dal nome impronunciabile.
Per costruire Milano 2, invece, nasce il 29 settembre 1968
(giorno del Suo trentaduesimo compleanno) una seconda Edilnord,
la Edilnord Centri Residenziali sas di Lidia Borsani e C.
Lidia Borsani è una Sua giovane cugina ed è
socia accomandataria; accomandante, anche in questo caso,
è una finanziaria svizzera, lAktiengesellschaft
für Immobilienanlagen in Residenzentren Ag di Lugano
che fornisce il capitale ed è sempre rappresentata
dallavvocato Rezzonico. È a capitale svizzero
anche la società che costruisce Milano 2, la Italcantieri
srl, fondata nel 1973 da due fiduciarie ticinesi, la Cofigen
Sa (rappresentata da un giovane praticante notaio) e la
Eti Ag Holding (rappresentata da una casalinga di nome Elda
Brovelli). Dietro la Cofigen si intravvede il discusso finanziere
svizzero Tito Tettamanti. Dietro la Eti, lavvocato
daffari Ercole Doninelli, a cui fa capo anche la Fimo,
una finanziaria svizzera coinvolta in numerose inchieste
su riciclaggio e traffico di droga. La Italcantieri, che
ha per amministratore unico Luigi Foscale (padre di Giancarlo
e Suo zio), sarà comprata dalla Fininvest srl in
due tranche, nel luglio 1975 e nel novembre 1976.
Nel 1970 nasce una terza Edilnord sas, con la cugina Lidia
Borsani sostituita dalla madre, Maria Bossi, Sua zia. Una
quarta vede la luce nel dicembre 1977, quando come socio
accomandatario, al posto dei parenti, entra un professionista,
Umberto Previti, commercialista calabrese padre del futuro
ministro Cesare Previti. Questa Edilnord sarà liquidata
dopo tre sole settimane di vita, il 1 gennaio 1978.
Per commercializzare gli immobili di Milano 2 entra in scena
la Sogeat (Società Generale Attrezzature di Walter
Donati). Donati è un uomo che lavora per Lei, ma
anche alle sue spalle, come a quelle della Sogeat, ci sono
misteriose società svizzere. Tra il 1967 e il 1975,
in Edilnord e Sogeat confluiscono almeno 4 miliardi di lire,
di provenienza sconosciuta (domanda 18).
Era intanto nata a Roma, il primo giorno di primavera del
1975, la Finanziaria dInvestimento (Fininvest) srl.
Lavevano data alla luce due società fiduciarie
della Banca Nazionale del Lavoro, la Saf e la Servizio Italia,
entrambe operanti su mandato di Suo cugino Giancarlo Foscale.
Foscale è nominato amministratore unico, del collegio
sindacale fanno parte Umberto Previti, suo figlio Cesare
e Giovanni Angela, uomo della Bnl. Nel novembre successivo
la Fininvest si era trasformata in spa e aveva trasferito
la sede sociale a Milano. Nel 1978, le stesse fiduciarie
Saf e Servizio Italia generano la Fininvest Roma srl, amministratore
unico Umberto Previti, che il 7 maggio 1979 realizza una
fusione per incorporazione con la Fininvest spa milanese
e un mese dopo, il 28 giugno, cambia nome (torna a chiamarsi
Fininvest srl) e sede (torna a Milano). Con finalmente Lei,
Silvio Berlusconi, presidente e un consiglio damministrazione
formato da Suo fratello Paolo e da Suo cugino Giancarlo
Foscale.
Per undici anni, dalla nascita della seconda Edilnord, nel
1968, fino alla terza Fininvest, del 1979, Lei si era nascosto
dietro una schiera di parenti, prestanome, teste di legno,
in un gioco opaco e complicatissimo di società con
capitali di provenienza ignota, di cui si sa soltanto che
provengono dalla Svizzera (o meglio: di cui la Svizzera
è lultimo passaggio in un percorso di cui si
perdono le tracce). A partire dal 1979, dunque, i veri amministratori
della Fininvest sono finalmente visibili. Lopacità
però si trasferisce a monte: nelle 23 (ma diventeranno
38 per poi ridursi a 22) società chiamate Holding
Italiana Prima, Seconda, Terza e così via, che acquistano
il controllo della Fininvest, in un intrico bizantino di
scatole cinesi, incroci e passaggi.
Nelle diverse Fininvest entrano molti soldi. Da dove vengano
è spesso impossibile capirlo. La Fininvest spa il
6 aprile 1977 delibera un aumento di capitale di ben 8 miliardi
(oggi, se ci fossero ancora le lire, sarebbero più
di 45). Secondo la legge allora vigente, però, gli
aumenti di capitale superiori ai 2 miliardi avevano bisogno
dellautorizzazione del ministero del Tesoro. Lei la
richiede e la pratica savvia. Ma il Tesoro chiede,
come di norma, alla Banca dItalia di svolgere la sua
istruttoria e Bankitalia pretende informazioni precise sulla
società, sui soci, sulle operazioni finanziarie.
Invece di fornirle, Lei e i suoi consulenti il 29 novembre
1978 revocate laumento di capitale già deliberato
ed escogitate un modo per ottenere lo stesso risultato senza
fornire quelle informazioni. Viene fondata la Fininvest
Roma, che aumenta il suo capitale da 20 milioni a 18 miliardi,
con unoperazione da 17,98 miliardi realizzata il 7
dicembre 1978. Poi viene messa in atto la fusione delle
due Fininvest: ai 18 miliardi di capitale della Fininvest
Roma si sommano così i 2 miliardi della Fininvest
«milanese», con il risultato di portare il capitale
a 20 miliardi. Poi partono tre operazioni Padana
da 6 miliardi, Ponte da 11, Palina da 15 che immettono
in Fininvest complessivamente 32 miliardi. Aggiunti ai 20
precedenti, ecco che la Fininvest ha un capitale sociale
di 52 miliardi. Senza alcuna autorizzazione del Tesoro,
senza alcuna informazione a Bankitalia.
Da dove vengano i soldi delle quattro operazioni realizzate
in questo complesso gioco tra Roma e Milano non si sa.
Intanto lassemblea Fininvest il 2 dicembre 1977 aveva
deliberato un «finanziamento soci» di 16,43
miliardi (oggi sarebbero un centinaio). In realtà
il denaro arriva in 25 piccole tranche, in un periodo di
17 mesi, dal 28 febbraio 1977 al 2 agosto 1978. Nessuna
carta spiega la provenienza delle somme. Si sa soltanto
che, dopo qualche tempo, la società restituisce quel
finanziamento, attraverso assegni Banca Popolare di Abbiategrasso
firmati da Giancarlo Foscale, girati in bianco da Servizio
Italia e consegnati nelle mani di Giovanni Dal Santo, un
uomo che compare in tanti passaggi importanti della Sua
storia finanziaria (domande 19 e 20).
Poi partono le quattro operazioni che permettono di portare
il capitale Fininvest a 52 miliardi. Il 7 dicembre 1978
è il giorno di un «giro finanziario chiuso»
(ce ne sono almeno sei in questo periodo) che fa partire
ben 17,98 miliardi da un ordinante sconosciuto. Questi vanno
alla Fininvest «milanese», poi si dividono tra
Saf e Servizio Italia, si riuniscono sui conti di zio Luigi
Foscale, passano a Lei, poi alla Saf, indi alle Holding
1-19, infine alla Fininvest Roma, per poi tornare allo sconosciuto
iniziale.
È un giro contabile a somma zero: soldi veri non
ne girano. Ma, nel circolo contabile, le fiduciarie Saf
e Servizio Italia vengono rimborsate da Fininvest del finanziamento
soci di 16,43 miliardi, li passano al loro rappresentante
Foscale, che li dà al proprietario, cioè a
Lei, che li integra con una piccola somma (540 milioni)
e poi li passa alle Holding, le quali con quei soldi sottoscrivono
laumento di capitale di 17,98 miliardi della Fininvest
Roma (che, essendo una srl, può ritoccare il capitale
senza lautorizzazione del Tesoro). È laumento
che serve ad arrivare, come abbiamo visto, ai 18 miliardi.
Gli unici soldi veri che entrano nel circolo sono i 540
milioni messi da Lei di tasca Sua.
TANTE PICCOLE HOLDING. Dopo la fusione tra le due Fininvest,
dunque, entrano in campo le Holding. Queste, a dispetto
del nome altisonante, sono semplici srl (società
a responsabilità limitata): così gli aumenti
di capitale si possono fare in casa, senza intrusi che vogliano
guardare le carte. Sono fondate il 19 giugno 1978 a Milano
da Nicla Crocitto, unanziana casalinga abitante a
Milano 2, che detiene il 90 per cento delle quote e viene
nominata amministratore unico delle società, mentre
il restante 10 per cento è intestato al marito, il
commercialista Armando Minna, già sindaco della Banca
Rasini e poi Suo consulente. Capitale sociale: il minimo,
20 milioni per Holding.
Tra il 4 e il 5 dicembre 1978 escono di scena i due prestanome
iniziali delle Holding e arrivano, al loro posto, due fiduciarie:
Saf e Parmafid. Tra il 29 giugno e il 19 dicembre 1979 alle
Holding vengono compiuti robusti conferimenti, per 26 miliardi.
Alla fine, il capitale sociale della Fininvest (52 miliardi)
è quasi interamente controllato dalle 23 Holding
(per 49,98 miliardi), tranne una piccola quota (2,02 miliardi)
direttamente nelle Sue mani.
Di chi sono le Holding? Mie, ha sempre risposto, anche se
Lei non ha mai potuto spiegare in maniera del tutto convincente
il perché di una struttura societaria tanto complicata.
Accanto a 38 Holding, oltretutto, ci sono cinque Holdifin,
più una Holding Elite. La moltiplicazione delle Holding
serve, di nuovo, a realizzare aumenti di capitale senza
che il Tesoro e la Banca dItalia si mettano a curiosare
nelle cose del Suo gruppo: se ciascuna può avere
un capitale di 2 miliardi, ecco che, essendo almeno 22 o
23, il capitale può essere moltiplicato per 22 o
23 volte. Il punto è che il pagamento delle quote,
comunque, avviene in contanti e dunque anche questa volta
non resta alcuna traccia della provenienza di denaro.
Tra il 1978 e il 1985 nelle Holding entrano 93,93 miliardi
(oggi sarebbero oltre 340). Il fatidico 7 dicembre 1978,
come abbiamo visto, le Holding 1-18 aumentano il capitale
da 20 milioni a 1 miliardo luna, con un afflusso di
17,98 miliardi. Nuovo amministratore unico diventa Luigi
Foscale, mentre Giovanni Dal Santo è nominato sindaco.
Chi versa le quote? Il fiduciante, cioè Lei, dicono
le carte, ma «non risulta alcuna evidenza del movimento
contabile».
il riciclaggio dal santo. Il 21 marzo 1979, primo giorno
di primavera, avviene unoperazione che ha per protagonista
Dal Santo. La società Coriasco, controllata dalla
fiduciaria Saf su mandato di Luigi Foscale, attua un aumento
di capitale di 2 miliardi di lire. La transazione avviene,
anche questa volta, «franco valuta»: quel giorno
è Dal Santo che, con una telefonata, dà ordine
alla Saf di sottoscrivere laumento di capitale e fa
pervenire alla fiduciaria (come risulta dagli appunti rintracciati
nella sede della Saf) 2 miliardi in contanti, che poi vengono
versati alla Cariplo e alla Banca Popolare di Novara, in
cambio di due assegni circolari per 2 miliardi. La Saf li
gira alla Coriasco, che così ufficialmente ha aumentato
il suo capitale attraverso lingresso di due assegni,
anche se in realtà loperazione è avvenuta
per contanti: Dal Santo, il primo giorno di primavera del
1979, attraverso Coriasco ha riciclato 2 miliardi di lire
di cui si ignora la provenienza (domanda 24).
Il 29 giugno 1979 nelle Holding entrano 6 miliardi, per
laumento di capitale delle Holding 1-6. Arrivano da
due fonti: 4,8 miliardi da un soggetto non identificato;
e 1,2 miliardi dalla Fiduciaria Padana (una società
riconducibile al gruppo Berlusconi) che li riceve da Fininvest
Roma in cambio di tre società fiduciariamente gestite
da Riccardo Maltempo (un prestanome che lavorava in unofficina
meccanica) e rappresentate da Giovanni Dal Santo.
Il 4 ottobre 1979 scatta loperazione Ponte: arrivano
11 miliardi alle Holding 7-17, come prestito obbligazionario.
I soldi partono dalla Ponte srl, passano per Saf, Holding
7-17, Fininvest, Italiana Centro Ingrosso srl, e con cinque
giroconti ritornano alla società Ponte, rappresentata
da Enrico Porrà, un invalido di 75 anni colpito da
ictus.
Porrà risulta essere il titolare di altre sei o sette
società, tra cui la Palina srl, una società
fondata il 19 ottobre 1979 da lui e da Adriana Maranelli,
una colf emiliana: altri prestanome, come il meccanico Maltempo,
come la casalinga Crocitto... Porrà, quando cè
da firmare qualche documento, va dal notaio su una carrozzella
spinta dai Suoi consulenti. Maranelli invece, contattata
nel 2000 dai giornalisti del settimanale LEspresso,
ha dichiarato: «Fu la signora Itala Pala, presso cui
ero a servizio, a chiedermi di firmare quelle carte nello
studio del suo amico, il ragionier Marzorati, un consulente
di Berlusconi. Mi dissero che non cera niente di illecito
e mi pagarono per farlo».
Presso labitazione della signora Pala erano domiciliate
molte società, tra cui, appunto, la Ponte e la Palina
(in onore alla padrona di casa?). Proprio la Palina il 19
dicembre 1979 è al centro di una delle operazioni
più misteriose e ricche della storia berlusconiana.
Quel giorno infatti Palina versa 27,68 miliardi di lire
(oggi sarebbero circa 120 miliardi) alla Saf, che li trasferisce
alle Holding 1-5 e 18-23, che li passano alla Finivest,
che li paracaduta alla Milano 3 srl, che li restituisce
alla Palina.
Un giro completo, e apparentemente vizioso. Con quale scopo?
Anche in questo caso, è un circolo contabile chiuso.
Rispetto ad altre operazioni circolari (quella del 7 dicembre
1978, quella della Ponte...), loperazione Palina ha
però una particolarità: abbiamo a disposizione
qualche informazione in più. Sappiamo che i 27,68
miliardi dati alla Palina dalla Milano 3 risultano essere
il pagamento di 2 mila azioni della Cantieri Riuniti Milanesi,
amministrata da Marcello DellUtri. Una bella cifra,
se si pensa che quelle stesse azioni erano state pagate
dalla Palina, poche settimane prima, soltanto 4,26 miliardi:
in pochi giorni, una gigantesca plusvalenza fatta in casa.
Le azioni erano state acquisite in parte (400 mila azioni)
dallUnione Fiduciaria, in parte (800 mila azioni)
da una fiduciaria di nome Siraf, in parte (altre 800 mila
azioni) da Anna Maria Casati Stampa, la marchesina che Le
aveva venduto, grazie ai buoni uffici di Cesare Previti,
la villa San Martino di Arcore e grandi terreni a Cusago.
Proprio per quei terreni, la marchesina era stata pagata
con le azioni della Cantieri Riuniti e, quando aveva chiesto
di essere liquidata, nel novembre 1979, Palina le aveva
pagato 1,7 miliardi di lire e poi aveva girato quelle azioni,
insieme alle altre acquisite dalla Siraf e (per 860 milioni)
dallUnione Fiduciaria, alla Milano 3, realizzando
una prodigiosa moltiplicazione del loro valore, almeno sulla
carta.
Non ci sono sicurezze su chi ci sia dietro la Siraf, né
dietro lUnione Fiduciaria, società delle Banche
Popolari. Si sa soltanto che i fissati bollati siglati da
Giorgio Bergamasco, il tutore della marchesina Casati Stampa,
fanno riferimento a passaggi dazioni per 2,56 miliardi:
la somma di quanto pagato ufficialmente alla marchesina
più quanto dato allUnione Fiduciaria. Ciò
apre unipotesi: se anche le azioni vendute dallUnione
Fiduciaria fossero della marchesina, il pagamento reale
dei terreni di Cusago sarebbe un po meno giugulatorio
di quello che appare, perché ci sarebbe unaggiunta
di «nero». Lalternativa è che Anna
Maria Casati Stampa, nelle mani del tutore ufficiale Giorgio
Bergamasco e del tutore di fatto Cesare Previti, sia stata
truffata. Come accadrà con la Sua Villa di Arcore,
pagata soltanto 500 milioni: a meno che anche qui non ci
fosse una consistente parte in nero (domande 22 e 23).
SILVIO IL PARRUCCHIERE. Tra il Natale 1979 e il Capodanno
1980 dalle Holding arrivano alla Fininvest altri 25 miliardi
di lire (dellepoca). Di questi, 4,3 miliardi sono
versati da Lei in persona alla Saf, il resto non ha nome.
Il 5 marzo 1981 sui conti della Holding Italiana Prima presso
la Banca Rasini piovono 3 miliardi in assegni, che escono
lo stesso giorno. Il 26 marzo 1984 le Holding 1-5 e 12-13
ricevono 7,179 miliardi: arrivano in assegni della Banca
Rasini, firmati da Lei. Altro finanziamento il 16 maggio:
a beneficiarne, questa volta, le Holding 13-18, che ricevono
2,297 miliardi, in assegni circolari. La documentazione
bancaria non dice da dove provengono tutti questi soldi,
Lei non lo ha mai spiegato.
Chi ha dovuto cercare di capire è Francesco Giuffrida,
un funzionario della Banca dItalia incaricato dalla
procura di Palermo di compilare una relazione tecnica sui
flussi finanziari delle Sue società. Sulla sua strada
Giuffrida ha incontrato non poche difficoltà. Innanzitutto
perché molte operazioni cruciali vengono eseguite,
come abbiamo visto, «franco valuta», cioè
direttamente dai titolari delle società date in gestione
alle fiduciarie, senza passare dalle fiduciarie. Dunque
senza lasciare tracce nei loro libri contabili (domanda
25).
Ma le difficoltà non sono limitate a problemi tecnico-contabili.
La Banca Popolare di Abbiategrasso, per esempio, dichiara
«di avere disponibili gli estratti conto delle Holding
per il dicembre 1978 limitatamente ad alcune Holding, infatti
per 13 di esse la pellicola microfilmata risulta essersi
bruciata». E la Banca Popolare di Lodi (listituto
che nel 1991 ha incorporato la Banca Rasini) in un primo
momento nega che la Rasini abbia mai «intrattenuto
rapporti attivi e/o passivi» con le Holding di Berlusconi
e con altre società e manager del Suo giro. Nellanagrafe
aziendale della banca, però, le società richieste
sono presenti: ma catalogate sotto la curiosa voce «Servizi
di parrucchieri e istituti di bellezza». Solo dopo
qualche insistenza la Popolare di Lodi cambia versione e
risponde che sì, «la Rasini aveva intrattenuto
conti correnti con le società in esame sin dal 1978».
Non solo: è in questa occasione che si scopre che
le Sue Holding non erano 22, ma 38, e che a esse si aggiungevano
cinque Holdifin e una Holding Elite. Questultima è
costituita il 22 febbraio 1979 da Roberto Massimo Filippa,
che è lamministratore unico della fiduciaria
Parmafid. Al termine del suo difficile lavoro, nel 1999,
analizzata tutta la documentazione disponibile, il consulente
Giuffrida ha dovuto concludere che moltissime operazioni
sono inspiegabili, che molti protagonisti sono senza volto.
La controprova che nella Sua storia finanziaria resta sempre
un fondo inaccessibile, qualcosa dinspiegabile, viene
dal Suo stesso fronte. Nel processo in cui Marcello DellUtri,
uno dei manager a Lei più vicini, è imputato
a Palermo con laccusa di concorso esterno in associazione
mafiosa, la difesa ha presentato una perizia di parte per
spiegare finalmente tutto e diradare ogni punto oscuro.
Ebbene, il perito incaricato da DellUtri, il docente
delluniversità Bocconi Paolo Iovenitti, ha
dovuto ammettere in aula che neppure a lui è stata
messa a disposizione tutta la documentazione: la sua perizia
parte dal 1978; gli anni cruciali, tra il 1975 e il 1978,
restano inspiegabilmente fuori, non sono stati esaminati.
Un tocco di colore: il professor Iovenitti così racconta
la nascita della Fininvest: «Contro la volontà
del dottor Berlusconi, milanese verace, viene costituita
a Roma e poco dopo segue unaltra Fininvest, sempre
a Roma, denominata Fininvest Roma...».
I SOLDI IN SVIZZERA. Come spiegare tanti misteri sulle origini
delle Sue fortune? I primi soldi, quelli per realizzare
i palazzi blu di via Alciati, provengono certamente dalla
Banca Rasini, di cui era direttore generale Suo padre. Poi
le fonti di finanziamento si fanno più oscure, ma
certamente passano per la Svizzera.
Una spiegazione del canale elvetico è contenuta nella
Sua biografia pubblicata nel 1994 da Paolo Madron (Le gesta
del Cavaliere, Sperling&Kupfer) e oggi introvabile.
Una biografia autorizzata, che può essere ritenuta
in qualche modo almeno semi-ufficiale: «Le città
giardino di Berlusconi sono servite (...) per far rientrare
le valigie di soldi a suo tempo depositate nella vicina
Svizzera. Alla fine degli anni Sessanta le vie che portano
al Paese degli gnomi sono intasate di spalloni che vanno
a mettere al sicuro il denaro della ricca borghesia terrorizzata
dai sequestri (ci provano anche con il padre di Berlusconi).
(...) Il Cavaliere va da Rasini e gli chiede di appoggiarlo
su quei suoi amici, clienti o meno della banca, che hanno
portato fuori tanti soldi».
I Suoi primi palazzi sarebbero dunque costruiti con i capitali
nascosti allestero dalla ricca borghesia lombarda
che, con la garanzia del banchiere Carlo Rasini, accetta
di affidarli a Lei, giovane e promettente imprenditore,
che li fa fruttare, con soddisfazione degli anonimi investitori.
È una spiegazione semplice, lasciata filtrare in
una biografia autorizzata, anche se mai ammessa apertamente:
perché comunque getterebbe sui primi passi dellimprenditore
Berlusconi lombra di pesanti violazioni di leggi valutarie
e societarie.
Più complicato, però, spiegare i massicci
finanziamenti che, dopo il 1975, piovono sulla Fininvest
e sulle Holding che la controllano, senza documentazione
contabile. Una prima possibilità: sono profitti da
Lei realizzati in nero, un gigantesco fiume extracontabile
alimentato dallacqua dalle vendite di immobili e,
in seguito, di pubblicità televisiva. Spiegazione
a basso profilo dillegalità (per quanto il
falso in bilancio, le false scritture contabili, lesportazione
di capitali fossero, allepoca, ancora reati gravi).
Ma davvero il nero può spiegare lintero afflusso
di capitali che hanno nutrito le Sue società? Difficile.
Come spiegare, allora, da dove vengono i soldi, o almeno
parte dei soldi? Alcune piste portano in Sicilia. È
siciliano Luigi Aldrighetti, nato a Palermo nel 1935, amministratore
della Compagnia Fiduciaria Nazionale spa, che almeno in
due occasioni conferisce denaro alle Sue società.
Fa entrare soldi nella Fininvest Roma, come dimostrato da
una traccia rimasta nel bilancio Fininvest 1980: «Titoli
in amministrazione fiduciaria presso Compagnia Fiduciaria
Nazionale di Milano nostra partecipazione 50 per cento,
lire 19 miliardi». Ed entra in una delle operazioni
finanziarie sopra citate, realizzata attraverso il prestanome
Riccardo Maltempo. Secondo una testimonianza resa alla Dia
(Direzione investigativa antimafia) di Palermo (di cui però
non è stato possibile provare lattendibilità),
la Compagnia Fiduciaria Nazionale, che aveva sede a Milano
in Galleria De Cristoforis, avrebbe avuto rapporti finanziari
spregiudicati.
È siciliano Giovanni Dal Santo, nato a Caltanissetta
nel 1920. Ebbe ruoli importanti nelle Sue società
in momenti cruciali: nella Milano 3 srl quando acquista
i Cantieri Riuniti Milanesi da Palina realizzando una miracolosa
plusvalenza; nellImmobiliare Idra quando compra villa
San Martino; nellIstifi (di fatto la banca interna
del gruppo Fininvest), di cui è stato il primo presidente
e amministratore delegato dal 1976 al gennaio 1978; ed è
lui a riciclare, nel marzo 1979, 2 miliardi di lire attraverso
Saf e Coriasco. È lui, poi, che scende da Milano
in Sicilia ad acquisire le antenne necessarie per costituire
i Suoi network televisivi: non senza contatti con personaggi
e ambienti mafiosi, come documenta il rapporto stilato per
la procura di Palermo dal maresciallo della Dia Giuseppe
Ciuro (domanda 21).
Intrattiene rapporti anzi, relazioni pericolose
con la Sicilia anche la Parmafid, la fiduciaria che fino
al 1994 controlla quote significative delle Holding, ed
esattamente il 49 per cento di Holding Italiana Prima e
il 10 per cento di Holding Italiana Seconda, Terza, Quarta,
Quinta, Ventunesima e Ventiduesima. La Holding Italiana
Prima, a sua volta, detiene il 100 per cento di Holding
Italiana Sesta e Holding Italiana Settima, oltre al 51 per
cento di Holding Italiana Ventiduesima. Dunque un consistente
pacchetto della Fininvest è controllato, fino al
1994, dalla Parmafid.
Chi cè dietro? La risposta ufficiale è
naturalmente che sia Lei a utilizzare questa fiduciaria
per controllare quote delle Sue società. Il caso
però vuole che non sia in buona compagnia. Parmafid
infatti è una fiduciaria milanese con due soci visibili,
i commercialisti Roberto Massimo Filippa e Michela Patrizia
Natalini, dietro cui si muovono personaggi di ben altro
peso: sono clienti di Parmafid, infatti, Joe Monti e Antonio
Virgilio, arrestati come «colletti bianchi»
della mafia a Milano nel blitz di San Valentino, il 14 febbraio
1983. Per la procura di Palermo, sono loro i veri padroni
di Parmafid. Virgilio, sempre secondo la procura di Palermo,
è affiliato «di Pippo e Alfredo Bono della
famiglia mafiosa di Bolognetta» e «attraverso
la Parmafid controllava tutto il suo gruppo imprenditoriale».
Ma Monti e Virgilio, dopo essere stati condannati in primo
grado e in appello come mafiosi e riciclatori a Milano dei
soldi di Cosa nostra, nel 1989 sono stati salvati in Cassazione
dal giudice «ammazzasentenze» Corrado Carnevale,
con la curiosa motivazione che i «rapporti daffari»
con i boss di Cosa nostra «non possono essere utilizzati
come prove dellorganizzazione criminale, né
dellappartenenza a essa».
Ha molti clienti siciliani anche la Rasini, la banca con
cui Lei compie le sue prime operazioni. È un piccolo
istituto privato di credito con un unico sportello, nella
centralissima piazza dei Mercanti, a un passo dal Duomo.
A Milano godeva di una doppia fama: era considerata una
banca efficiente, rapida e flessibile, ma anche assai spregiudicata.
Il bancarottiere Michele Sindona, al noto giornalista e
scrittore americano Nick Tosches, che nel 1985 gli chiedeva
quali erano le banche della mafia, rispondeva: «In
Sicilia il Banco di Sicilia, a volte. A Milano una piccola
banca di piazza dei Mercanti».
Certamente cliente della «piccola banca di piazza
dei Mercanti», cioè della Rasini, era il boss
mafioso Robertino Enea. E lo erano anche Joe Monti e Antonio
Virgilio, che facevano passare per la Rasini i loro soldi
e non erano pochi. Direttamente coinvolto nelle indagini
sulla mafia dei «colletti bianchi» è
Antonio Vecchione, il successore di Suo padre alla direzione
della Banca Rasini. Dopo il 1973, anno in cui Carlo Rasini
vende la sua banca, tra i nuovi azionisti ci sono il siciliano
Giuseppe Azzaretto (con il 29,3 per cento) e (con il 32,7
per cento) tre società del Liechtenstein rappresentate
da Herbert Batliner. Da un processo per traffico di droga
e riciclaggio celebrato negli Stati Uniti nel 1998, risulta
che Batliner svolgeva ruoli finanziari per narcotrafficanti
latinoamericani. Dietro la Rasini, dunque, cerano
solo i denari nascosti in Svizzera dalla buona e operosa
borghesia lombarda? Per tentare di rispondere, è
necessario ricordare che cosa si muove sottotraccia a Milano
a partire dai primi anni Sessanta.
I SICILIANI A MILANO. Nella capitale lombarda si insedia
una potente colonia di mafiosi siciliani, i cui affari miliardari
sono descritti in alcuni rapporti stilati in quegli anni
dalla Criminalpol (la polizia criminale, che si stava per
la prima volta specializzando in indagini sulla criminalità
organizzata). Stabili sulla piazza milanese operano i fratelli
Alfredo e Pippo Bono, Ugo Martello, Robertino Enea, oltre
ai «colletti bianchi» Monti e Virgilio. Si trasferiscono
al Nord dalla Sicilia boss come Gaetano Carollo, Giuseppe
Ciulla, Gaetano Fidanzati, Vittorio Mangano. A Milano arrivano
in «missione daffari» Joe Adonis, Stefano
Bontate (in quegli anni il numero uno di Cosa nostra), Tommaso
Buscetta (che a Milano apre una società di import-export).
Ma sono ben 372 i mafiosi che nel decennio tra il 1961 e
il 1972 vengono inviati al soggiorno obbligato in Lombardia
e che vi costruiscono la prima stabile rete daffari
delle organizzazioni criminali.
Fino alla metà degli anni Settanta non è ancora
la droga il business prevalente di Cosa nostra, ma i sequestri
di persona, le rapine, il contrabbando di tabacchi. I capitali
provenienti dai riscatti e dalle altre attività illecite
sono poi reinvestiti in attività imprenditoriali.
I boss si trasformano in imprenditori. Ma non solo: stabiliscono
una rete di rapporti con gli imprenditori «puliti».
Racconta il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo: «Il
pericolo dei sequestri, allora molto frequenti, portava
gli industriali a entrare in contatto con gli uomini donore,
anzi a desiderarne la protezione. Chiaramente, una volta
entrato in contatto con Cosa nostra, limprenditore
non poteva e non può più allontanarsene e
deve consentire alle varie richieste che possono venire
dagli uomini donore con cui è in contatto.
Tra queste, indubbiamente, cè anche il reimpiego
di capitali dillecita provenienza».
Anche Lei, dopo i primi successi imprenditoriali, teme per
Sé e i Suoi familiari un sequestro: possibili obiettivi
di rapimento sono anche Suo padre Luigi, Suo figlio Pier
Silvio. Ne parla apertamente in unintervista al Corriere,
nel 1994: «Rapporti con la mafia ne ho avuti una volta
sola, quando tentarono di rapire mio figlio Pier Silvio,
che allora aveva cinque anni: portai la mia famiglia in
Spagna e lì vissero molti mesi». Pier Silvio
compie cinque anni il 28 aprile 1973, perciò almeno
a quellanno vanno fatti risalire il timore dei sequestri
e le prime contromosse. Proprio in quellanno, in effetti,
Lei si ricorda di un giovane palermitano conosciuto negli
anni delluniversità (quindi più di dieci
anni prima): si chiama Marcello DellUtri. Lo chiama
e lo assume come assistente. Lanno successivo, DellUtri
Le presenta un amico, Vittorio Mangano, che fa assumere
come fattore presso la villa di Arcore. Mangano è
un mafioso, uomo donore della potente famiglia palermitana
di Porta Nuova. Da fattore, responsabile della gestione
agricola e dei cavalli della villa, viene a vivere sotto
il Suo stesso tetto.
UN'ESTATE IN SPAGNA. Nei primi anni Settanta Lei sembra
davvero «assediato» dai siciliani sbarcati a
Milano. Villa San Martino subisce alcuni furti, come ammette
lo stesso DellUtri: «Effettivamente, nel 1974,
quando Mangano stava già ad Arcore, furono rubati
quadri e altri oggetti». La notte di SantAmbrogio,
il 7 dicembre del 1974, un gruppo di siciliani tenta (senza
successo) di sequestrare un ospite appena uscito da villa
San Martino, Luigi DAngerio. I Suoi uffici milanesi
subiscono alcuni piccoli attentati, una bomba esplode il
26 giugno 1975 in una palazzina di via Rovani, a Milano,
dove Lei aveva posto la sede delle Sue società.
I progetti di rapimento sono stati raccontati anche da alcuni
dei siciliani coinvolti. Gaspare Mutolo ricorda che Lei,
signor presidente del Consiglio, fu pedinato per settimane
da Nino Grado, uomo donore palermitano; ma che poi
arrivò il contrordine: Gaetano Fidanzati e Pippo
Bono bloccarono loperazione, annunciando che «Berlusconi
è una persona intoccabile». Giuseppe Marchese,
ex autista di Totò Riina, sostiene che due killer
delle famiglie catanesi gli confidarono di aver progettato
il sequestro di Pier Silvio, ma di essere stati fermati
dai palermitani: «Noi avevamo lintenzione di
sequestrare il figlio di Berlusconi, però poi cè
stato lintervento dei paesani vostri, i quali hanno
detto che Berlusconi interessava», cioè «Cosa
nostra palermitana era in rapporti tali con Berlusconi per
cui costui non doveva essere in alcun modo disturbato».
Lo stesso DellUtri ammette il pressing, confermando
larrivo di una lettera anonima ad Arcore nei primi
giorni del 1975: «Rammento solo che si trattava di
una richiesta di denaro. Se Silvio non avesse pagato, suo
figlio sarebbe stato rapito e ucciso. (...) Arrivarono anche
delle telefonate anonime. Berlusconi allora si allarmò.
Eravamo ormai nel periodo estivo e così lui decise
di andare allestero con tutta la famiglia. Gli organizzai
un viaggio in Spagna». Nelle dichiarazioni Sue e di
DellUtri gli anni non corrispondono perfettamente:
Lei, nellintervista al Corriere, colloca le minacce
e la «fuga» in Spagna quando Pier Silvio aveva
cinque anni, quindi nel 1973; DellUtri nel 1975. In
ogni caso, entrambi avete confermato che nella prima metà
degli anni Settanta la famiglia Berlusconi era sotto il
tiro della mafia. Ed entrambi avete ammesso che non furono
denunciate né le minacce, né gli attentati.
Nel caso della bomba di via Rovani, addirittura, lindagine
di polizia viene depistata, poiché Lei non informa
che la palazzina è di Sua proprietà, ma lascia
credere che appartenga alla «Società Generale
Attrezzature gestita da Walter Donati»: così
è scritto in un rapporto della Direzione centrale
della polizia criminale (la Sogeat vendeva gli immobili
di Milano 2 e Donati, come abbiamo visto, non è che
uno dei Suoi tanti prestanome). È legittimo dunque
almeno ipotizzare che, poiché i «problemi»
cerano, furono risolti in altro modo, magari attraverso
contatti diretti con i siciliani. È certo, invece,
che DellUtri manteneva rapporti con i boss: è
costretto egli stesso ad ammettere di aver partecipato,
per esempio, alla festa per il compleanno di Antonino Calderone,
il 24 ottobre 1976, al ristorante milanese Le colline pistoiesi,
con presenti, oltre a Vittorio Mangano, i fratelli Nino
e Tanino Grado. Pensi: quel Nino Grado che, secondo Mutolo,
Laveva pedinata in vista di un sequestro.
Ormai oltrepassata la metà degli anni Settanta, Cosa
nostra è entrata alla grande nel business della droga
e proprio i fratelli Grado sono protagonisti di un traffico
deroina che dalla Turchia passa per Palermo e Milano,
per essere poi indirizzata verso limmenso mercato
americano.
DellUtri frequenta anche Ilario Legnaro, capofila
di una cordata di mafiosi catanesi che, in competizione
questa volta con i palermitani, dà lassalto
(a suon di tangenti pagate ai politici democristiani e socialisti)
ai casinò del nord Italia. Il contatto emerge per
una sfortunata coincidenza: DellUtri è a casa
di Legnaro l11 novembre 1983, quando la polizia vi
irrompe a sorpresa e arresta il catanese per associazione
mafiosa, identificando anche i suoi ospiti, tra cui DellUtri.
Il Suo collaboratore ammette di aver sempre mantenuto un
buon rapporto anche con Mangano. Gaspare Mutolo, a questo
proposito, riferisce: «Mentre eravamo in carcere assieme,
Vittorio Mangano mi disse che alcune somme provenienti da
Pippo Calò, Salvatore Riina, Ugo Martello e Pippo
Bono erano state investite a Milano da parte di DellUtri,
che veniva considerato una persona seria, cioè affidabile
ai fini della nostra organizzazione. Sempre Mangano mi disse
che in passato DellUtri era stato vicino a Stefano
Bontate e Gaetano Badalamenti».
Secondo Filippo Alberto Rapisarda, un discusso finanziere
proveniente dalla Sicilia che fin dagli anni Sessanta è
nel giro dei siciliani attivi a Milano, Lei avrebbe incontrato
personalmente addirittura il capo dei capi di Cosa nostra,
Stefano Bontate. Rapisarda racconta nel 1987 al giudice
istruttore di Milano Giorgio Della Lucia: «Tra il
dicembre del 1978 e il gennaio del 1979, mentre stavo tornando
dallo studio del notaio Sessa, incontrai, non lontano dalla
sede dellEdilnord, Stefano Bontate e Mimmo Teresi,
i quali mi invitarono a prendere un caffè con loro
in un bar di piazza Castello. Teresi e Bontate mi dissero
che dovevano andare da Marcello DellUtri, il quale
aveva loro proposto di entrare nella società televisiva
che di lì a poco Silvio Berlusconi avrebbe costituito.
Teresi mi disse che occorrevano dieci miliardi e, tra il
serio e lo scherzoso, mi domandò se per me quello
era un buon affare. Io ci rimasi male, anche se non feci
trasparire nulla. DellUtri in quel periodo lavorava
formalmente solo per me. Nel 1977, con lui al mio fianco,
avevo aperto Milano Tele Nord, la prima tv privata della
città, e avevo anche firmato un contratto con due
consulenti che ci avevano insegnato tutto sul sistema pubblicitario...
Il discorso di Teresi mi diede dunque la prova di quello
che già sospettavo: DellUtri faceva la spia
per Berlusconi».
Di certo in quegli anni DellUtri fa la spola tra Rapisarda
e Lei: dopo aver lavorato per il primo, viene da Lei come
assistente; torna per un breve periodo da Rapisarda, per
poi passare definitivamente al gruppo Fininvest.
A COSA NOSTRA PIACE LA TV. Rapisarda ha ripetuto i suoi
racconti, con dovizia di particolari, anche a chi scrive,
aggiungendo di aver visto con i suoi occhi, nellufficio
del suo dipendente DellUtri in via Chiaravalle (nel
grande palazzo antico al centro di Milano dove ancora oggi
Rapisarda abita), Bontate in persona che rovesciava borse
piene di soldi da investire nelle tv. Nel 1998, poi, Rapisarda
ha confermato gran parte delle sue accuse a DellUtri
anche al processo di Palermo in cui Marcello DellUtri
è imputato per mafia. Ma è attendibile il
finanziere che, in maniera ondivaga, ha più volte
strappato e poi ricucito i rapporti con Lei e DellUtri?
Di certo, una almeno parziale conferma alle parole di Rapisarda
arriva comunque da un collaboratore di giustizia considerato
particolarmente attendibile, Antonino Giuffé, braccio
destro dellultimo capo di Cosa nostra, Bernardo Provenzano:
«Con la scusa di andare a trovare Mangano»
racconta Giuffré nelludienza del 7 gennaio
2003 del processo DellUtri Stefano Bontate
si era spostato da Palermo a Milano per incontrare, ad Arcore,
limprenditore emergente Silvio Berlusconi. Nessun
giornale italiano (tranne lUnità di Furio Colombo)
dà rilievo alla testimonianza. Commenta il New York
Times: «In molti Paesi accuse di tale serietà
potrebbero quantomeno condurre a voci di un imminente crollo
del governo, ma in Italia sono a malapena registrate (...).
Decenni di accuse sullinfluenza della mafia sulla
politica italiana, alcune reali, altre immaginate, hanno
intorpidito gli italiani a tal punto che i quotidiani danno
più spazio alle notizie sul maltempo».
LA PRIMA INCHIESTA. Certo è che Lei subisce la sua
prima inchiesta giudiziaria proprio per i possibili rapporti
con la criminalità organizzata: nellambito
di unindagine su droga e riciclaggio di soldi sporchi,
nel lontano 1983 Le vengono posti sotto controllo i telefoni.
In un rapporto della Guardia di finanza dellepoca
si legge: «È stato segnalato che il noto Silvio
Berlusconi finanzierebbe un intenso traffico di stupefacenti
dalla Sicilia, sia in Francia che in altre regioni italiane
(Lombardia e Lazio). Il predetto sarebbe al centro di grosse
speculazioni edilizie e opererebbe sulla Costa Smeralda
avvalendosi di società di comodo aventi sede a Vaduz
e comunque allestero...».
Lindagine, condotta inizialmente dal magistrato milanese
Giorgio Della Lucia (poi imputato per corruzione insieme
al finanziere Rapisarda) non trovò alcun elemento
penalmente rilevante e nel 1991 fu archiviata dal gip Anna
Cappelli. Ma davvero negli anni Ottanta Lei ha intrattenuto
rapporti daffari con il faccendiere sardo Flavio Carboni,
a sua volta in contatto con ambienti della criminalità
organizzata romana, come ampiamente documentato dalla Commissione
parlamentare sulla P2 presieduta da Tina Anselmi.
Alcune testimonianze che provengono dallinterno di
Cosa nostra sostengono ma forse è una leggenda
che Lei sarebbe stato beneficiato da uno scherzo
del destino: Bontate viene ucciso nel 1981 dai corleonesi
di Riina, che dopo una guerra di mafia con i palermitani
con centinaia di morti, si impossessano di Cosa nostra.
Che fine fanno i capitali accumulati dal capo palermitano?
Risponde Gioacchino Pennino, mafioso e politico, poi diventato
collaboratore di giustizia: «Lenorme patrimonio
accumulato da Bontate e dal suo gruppo è ipotizzabile
che sia rimasto nelle mani di chi lo aveva gestito e perciò,
secondo quanto io ho appreso dallavvocato Gaetano
Zarcone, nelle mani di Berlusconi e dei fratelli DellUtri».
Pennino è convinto di un preciso interesse di Cosa
nostra per le Sue tv: «Mi sembra evidente come da
sempre i vertici di Cosa nostra si siano resi conto dellimportanza
del controllo dei mezzi dinformazione. (...) Ritengo
che laquisizione, già avviata, di alcune emittenti
televisive in Sicilia (mi pare due) sia stata portata a
compimento da Berlusconi e Marcello DellUtri».
RELITTI SULLA SPIAGGIA. Sui rapporti tra Lei e Cosa nostra,
negli anni si sono accumulate negli archivi moltissime testimonianze,
ben più numerose di quelle qui riportate: una gran
mole di materiali, come gli oggetti rilasciati dalle onde
che si depositano sulle spiagge. Alcuni punti fermi ci sono.
La Banca Rasini era certamente utilizzata dai siciliani
a Milano. Certe sono le pressioni mafiose su di Lei nei
primi anni Settanta, gli attentati e le minacce di sequestro.
Certo è che la Sua risposta fu «privata»:
lapertura di contatti con alcuni siciliani (certamente
Marcello DellUtri e Vittorio Mangano). In seguito,
i contatti con la «filiale» milanese di Cosa
nostra, inizialmente mirati a evitare un rapimento e a proteggere
la famiglia, potrebbero essere diventati più solidi
rapporti daffari: Lei, imprenditore pieno didee
ma privo di capitali propri, sostenuto come tanti, al Nord,
dalla fiducia nel motto «pecunia non olet»,
potrebbe aver accettato finanziamenti anche da investitori
particolari quali i boss mafiosi. Sono provati almeno due
punti di contatto con i mafiosi siciliani: le trattative
per lacquisto di emittenti televisive in Sicilia;
e il pagamento annuale a Cosa nostra di una somma (200 milioni
di lire) non come frutto di una estorsione, ma come amichevole
«regalo» ai boss, in relazione alla sicurezza
delle Sue antenne televisive nellisola.
Alle domande che i magistrati di Palermo avrebbero voluto
porle allinterno del processo DellUtri (imputato
di concorso esterno allassociazione mafiosa Cosa nostra)
Lei non ha risposto e non può rispondere: perché
dovrebbe svelare il possibile lato oscuro dei Suoi affari,
dovrebbe confessare, se li ha avuti, i rapporti pericolosi
che ha stretto lungo la Sua carriera (domande 17 e 26).
Signor presidente del Consiglio, cè qualcosa
che vorrebbe smentire, correggere, specificare, aggiungere?
5. La loggia P2
LEconomist
racconta liscrizione di Berlusconi alla loggia segreta
di Gelli. Rimarca la sua falsa testimonianza sulle modalità
delliscrizione. E ricorda un lontano episodio del
1979: un ufficiale della Guardia di finanza, Massimo Maria
Berruti, esegue unispezione presso le società
di Berlusconi, il quale sostiene di essere soltanto un consulente
di aziende non sue; nel rapporto finale, il superiore di
Berruti, Salvatore Gallo, raccomanda di non prendere alcuna
misura nei confronti di quelle aziende, su cui pure gravano
pesanti irregolarità valutarie. Berruti in seguito
diverrà consulente Fininvest e poi parlamentare di
Forza Italia. Gallo è tra gli iscritti alla loggia
P2.
Le risposte di Berlusconi.
Versione 1: ironia & folklore. «La tessera
me la porta la segretaria dicendo: Cè
scritto che Lei, dottore, è apprendista muratore....
Ero in riunione con 12 o 14 collaboratori: tutti scoppiamo
a ridere. Ma come, dico io, sono il primo costruttore italiano
di città e mi definiscono apprendista muratore? Questo
non lo accetto» (6 marzo 2000).
Versione 2: vanità & un piacere fatto
a un amico. «Io resistetti molto a dare la mia adesione.
Gelli mi riempì di complimenti dicendomi che mi considerava
fra i nuovi imprenditori quello più bravo e insistette
molto che io avevo un futuro importante davanti... Io resistetti
molto a dare la mia adesione, poi lo feci perché
Roberto Gervaso insistette particolarmente... Gervaso è
un mio carissimo amico. Mi disse: Fammi fare bella
figura, lui aveva bisogno di scrivere sul Corriere
della sera. Ma cosa ti costa, dammi questa possibilità,
fammi fare bella figura, e io aderii» (3 novembre
1993).
Versione 3: interesse. «Mi sono iscritto alla
P2 nei primi mesi del 1978, su invito di Licio Gelli, che
conoscevo da circa sei mesi... Non ho mai versato contributi...
Gelli mi chiarì che, tramite la Massoneria, organizzazione
internazionale, avrei potuto avere dei canali di lavoro
e contatti internazionali per la mia attività...»
(26 ottobre 1981).
Versione 4: sono appena arrivato & non ho mai
pagato. «Non ricordo la data esatta della mia iscrizione
alla P2, ricordo comunque che è di poco anteriore
allo scandalo... Non ho mai pagato una quota discrizione,
né mai mi è stata richiesta» (27 settembre
1988).
Signor presidente del Consiglio, sulla base della nostra
ricostruzione dei fatti, queste sono le risposte alle domande
sulla P2.
La Sua prima «discesa in campo» avviene del
1977, quando Lei comincia a finanzare il Giornale di Indro
Montanelli, comprandone una quota. Lo fa per un preciso
impegno politico: contrastare la sinistra (che già
vede anche dove non cè) e rafforzare una voce
della destra. Lo confessa in unintervista a Pirani
(«Quel Berlusconi lè minga un pirla»,
Repubblica, 15 luglio 1977): «Sentivo lesigenza
di conservare una pluralità di voci, col Corriere,
il Carlino e la Nazione che andavano sempre più a
sinistra». Alla domanda su quali fossero i suoi punti
di riferimento politici, Lei risponde: «La vera alternativa
è nella Dc, una Dc che si trasformi in modo da permettere
al Psi di tornare al governo». Poi precisa che i suoi
punti di riferimento sono, appunto, nella destra democristiana,
quella anticomunista e tecnocratica. «Come pensa di
impegnarsi a favore di queste forze?», Le chiede Pirani.
«Non certo pagando tangenti, ma mettendo a loro disposizione
i mass media. In primo luogo Telemilano, che sto riorganizzando
e che diventerà un tramite fra gli uomini politici
che dimostreranno di non aver divorziato dalleconomia
e dalla cultura e lopinione pubblica». A parte
laccenno alle tangenti excusatio non petita
Lei mostra di avere ben chiaro fin dagli esordi che
i mass media, e la tv in particolare, sono (anche) unarma
politica. Una politica, naturalmente, che sia tuttuno
con gli affari.
Pochi mesi dopo, Lei entra nel club che incarna perfettamente
la Sua concezione della politica e della sua compenetrazione
con gli affari: si affilia alla loggia massonica P2 di Licio
Gelli. Numero di tessera 1816, fascicolo 625, data di iniziazione
26 gennaio 1978, codice E 19.78, gruppo 17, quello del settore
editoria. Sulla Sua affiliazione, ha sempre minimizzato,
ironizzato, mentito. Tanto da rischiare anche una condanna
per falsa testimonianza, evitata grazie a una provvidenziale
amnistia: la versione 4 sopra riportata, infatti, Lei lha
sostenuta sotto giuramento mentre deponeva davanti al tribunale
di Verona, come teste-parte offesa in un processo contro
alcuni giornalisti da cui si era sentito diffamato. Nella
Sua testimonianza, dopo aver giurato di dire tutta la verità,
ha affermato che la Sua iscrizione è «di poco
anteriore allo scandalo» e di non aver mai pagato
quote. Scatta la denuncia per falsa testimonianza. E la
Corte dappello di Venezia nel maggio 1990 ritiene
provato che Lei ha mentito: perché laffiliazione
era avvenuta allinizio del 1978, quindi non poco prima,
ma più di tre anni prima che i giudici Giuliano Turone
e Gherardo Colombo trovassero, nel marzo 1981, le liste
degli affiliati; e perché agli atti della Commissione
parlamentare dinchiesta sulla P2 vi sono le prove
del pagamento delliscrizione. Non cè
stata condanna: perché il reato di falsa testimonianza
è estinto per effetto dellamnistia del 1989.
Unamnistia che Lei non ha ritenuto di rifiutare.
Signor presidente del Consiglio, ci permetta una digressione.
La P2 nasce in Italia come effetto della «svolta del
1974». Fino a quellanno, la destra oltranzista
filoamericana è impegnata in tutta Europa in una
strategia anticomunista del muro contro muro, della lotta
senza esclusione di colpi: fino, se necessario, al golpe.
In Grecia il golpe cè stato; in Italia, Paese
economicamente e socialmente più complesso, le fortissime
spinte eversive si sono fermate entro i confini di quella
che è stata chiamata «strategia della tensione»,
o low intensity war (conflitto a bassa intensità),
da piazza Fontana al tentato golpe Borghese, da piazza della
Loggia fino alla strage dellItalicus.
Nel 1974, però, le cose cambiano. Negli Usa cade
il presidente Nixon e lamministrazione americana ritira
il sostegno, in Europa, alla strategia apertamente eversiva.
Finisce il regime dei colonnelli in Grecia e si sbriciola
la dittatura salazarista in Portogallo. In Italia, gran
parte del personale impegnato nella dura fase della «guerra
non ortodossa» si ricicla in una strategia nuova,
più flessibile, che si propone non più lo
scontro diretto con il nemico comunista, ma loccupazione
sotterranea dei centri di potere del Paese, da sottrarre
al «nemico».
In questa fase, una parte del fronte occidentale procede
invece lentamente sulla strada dellapertura a sinistra,
del «disgelo» che punta a portare almeno una
parte del «nemico comunista» dentro le regole
della democrazia occidentale. Gli oltranzisti atlantici,
al contrario, mantengono la via dellanticomunismo
«senza se e senza ma». E dichiarano guerra a
chiunque, anche dentro il loro campo, ceda davanti a quella
che ritengono non unapertura, bensì soltanto
una nuova offensiva del comunismo, meno violenta ma più
subdola e pericolosa. Per questo agli oltranzisti atlantici
la divisione in partiti risulta ormai insufficiente: è
necessario distinguere, anche dentro i partiti di centrodestra,
gli «amici» dai «nemici», selezionare
in ogni settore chi è davvero fedele allOccidente,
creare un «club» trasversale di uomini dello
Stato soggetti a un doppio giuramento, di imprenditori e
professionisti che conducano la loro battaglia senza cedere
alle sirene dellapertura a sinistra.
Questa, in estrema sintesi, è la natura politica
della P2, che era in effetti uno Stato nello Stato, «club»
delloltranzismo altlantico anticomunista, e insieme
un crocevia di relazioni e daffari. In questo «club»
(termine che poi riprenderà quando deciderà
di fare politica in proprio) Lei entra nel gennaio 1978.
Lintervista del luglio 77 a Pirani dimostra
la consapevolezza politica dellimprenditore quarantenne
che sta passando dal settore immobiliare a quello televisivo:
non è uno sprovveduto, mosso soltanto dal desiderio
di fare soldi; ha anche una sua precisa visione della politica,
in cui gli affari, certo, sono parte essenziale. Per questo
la P2 è esattamente il luogo della politica così
come Lei la intende: un mix di pulsioni tecnocratiche e
autoritarie e di occasioni daffari, in un contenitore
(un «club») trasversale ai partiti.
crediti facili e mundialito. Certamente dalladesione
alla P2 Lei ha ottenuto consistenti benefici economici.
La bugia sulla data daffiliazione (domanda 27) non
è, dunque, innocente: non serve soltanto a minimizzare
la Sua adesione alla loggia di Gelli, ma soprattutto a tentare
di nascondere che cè stato un periodo
oltre tre anni in cui le relazioni piduiste hanno
portato i loro frutti (domanda 28). Era un Suo fratello
di loggia quel Ferruccio De Lorenzo, presidente dellEnpam
(lente di previdenza e assistenza dei medici italiani),
che Le acquista una parte di Milano 2 in anni difficili,
di mercato immobiliare bloccato. Gli aiuti più consistenti,
però, Le sono venuti nel settore del credito: gli
uomini della P2 nelle banche Le hanno facilitato laccesso
ai finanziamenti. Lo documenta la Commissione parlamentare
dinchiesta sulla P2, facendo riferimento alla Banca
Nazionale del Lavoro, che alla fine degli anni Settanta
è praticamente controllata dalla P2, con ben nove
alti dirigenti affiliati (tra cui Gianfranco Graziadei,
amministratore delegato di Servizio Italia, una delle due
fiduciarie che fondano la Fininvest); e al Monte dei Paschi
di Siena, che aveva come direttore generale Giovanni Cresti,
iscritto alla P2.
Una relazione del Collegio dei sindaci del Monte dei Paschi
nel 1981 sostiene: «La posizione di rischio verso
il gruppo Berlusconi ha dimensioni e caratteristiche del
tutto eccezionali. (...) Gli Ispettori che hanno esaminato
la posizione (nella sua globalità) ne hanno fatto
unanalisi accurata che ci consente di pervenire a
conclusioni che dimostrano lesistenza di un comportamento
preferenziale accentuato». Seguono tabelle che documentano
come il sistema creditizio italiano Le abbia messo a disposizione,
tra il 1974 e il 1981, fidi per poco meno di 199 miliardi
di lire e fidejussioni per oltre 150 miliardi. Circa il
20 per cento di queste cifre è erogato dal Monte
dei Paschi. Conclude la Commissione Anselmi: «Alcuni
operatori (Genghini, Fabbri, Berlusconi e altri) trovano
appoggi e finanziamenti al di là di ogni merito creditizio».
La P2 è presente anche in uno snodo importante della
storia delle Sue tv. Nel periodo 1978-1980, la loggia di
Gelli è molto attiva nel settore dei media. Acquisisce
il controllo di fatto del maggior gruppo editoriale del
Paese, la Rizzoli-Corriere della sera. Poi sferra un attacco
al monopolio televisivo della Rai. Nel 1980 porta a termine
con successo loperazione Mundialito.
Sotto la regia di Licio Gelli, che aveva grandi interessi
economici e ottime entrature politiche in Uruguay con la
giunta golpista al potere, Canale 5 ottiene i diritti televisivi
europei per il Mundialito, il campionato mondiale tra le
nazionali calcistiche vincitrici della Coppa Rimet, programmato
a Montevideo per il 1981. Non solo: la Sua rete ammiraglia
ha il permesso, in deroga alle leggi vigenti, di trasmettere
le partite, per la prima volta, in diretta e su tutto il
territorio nazionale. È la prima rottura del monopolio
televisivo Rai. Nel governo che permette la svolta sono
presenti: il ministro delle Poste Michele Di Giesi, socialdemocratico,
che obbediva al suo segretario di partito Pietro Longo (tessera
P2 numero 2223), il ministro di Grazia e giustizia Adolfo
Sarti (che aveva presentato domanda discrizione, accolta
allunanimità nel giugno 1978) e il ministro
del Commercio estero Enrico Manca (con in Svizzera il tesoretto
gestito da Previti e in tasca la tessera P2 numero 2148,
ma come abbiamo visto estraneo alla P2 per
sentenza).
Oltre a questi consistenti benefici materiali, la P2 permette
a Lei, ignoto palazzinaro milanese e «nuovo ricco»
tenuto ancora fuori dai salotti che contano, qualche soddisfazione
morale, il suo primo ingresso in società: a partire
dal 10 aprile 1978 (tre mesi dopo laffiliazione alla
loggia di Gelli), Lei diventa, a sorpresa, collaboratore
del Corriere della sera, dotto commentatore di fatti economici.
LItalia ancora non lo sa, ma il Corriere è
caduto sotto il controllo della P2: e in un aprile drammatico,
in cui le pagine di tutti i quotidiani sono piene di notizie
sul terrorismo e sul sequestro in corso del
presidente della Dc Aldo Moro, il più importante
quotidiano nazionale riesce a trovare lo spazio per pubblicare
con grande evidenza, a pagina 2, in apertura, lo scritto
del suo nuovo opinionista (titolo: «Un piano per lindustria
che darà pochi frutti. Con la nuova legge 675 si
rischiano tutti gli inconvenienti del dirigismo»).
Signor presidente del Consiglio, cè qualcosa
che vorrebbe smentire, correggere, specificare, aggiungere?
In conclusione.
Queste le risposte alle domande dellEconomist e alle
altre aggiunte da Diario. Sono risposte che naturalmente
mantengono unarea dincertezza, in materie tanto
complesse e delicate, ma che sono il frutto dello studio
attento di tutta la documentazione finora disponibile, senza
preclusioni né pregiudizi. Siamo disponibili a cambiare
radicalmente opinione su queste vicende, se Lei, signor
presidente del Consiglio, ci vorrà fornire risposte
alternative convincenti.
Diario, 29 agosto 2003
Integrale, il
dossier dell'Economist del 30 luglio 2003 con le 28
domande a Berlusconi.