PRIMOPIANO
In evidenza oggi

FOCUS
I fatti, i personaggi,
le inchieste

PREVISIONI DEL TEMPO
Commenti, interventi,
polemiche

IDENTIKIT
Ecco che cos’è
società civile

CENTOFIORI
Il meglio della rete

FORUM
Spazio libero alle idee

 

 
 
 

Berlusconi, le risposte

All'inizio d'agosto 2003 "The Economist" ha rivolto 28 dettagliate domande al presidente del Consiglio italiano. Ecco le risposte scritte, per "Diario", da Gianni Barbacetto


La prima delle copertine dell'Economist dedicate a Berlusconi.


Giornalismo & patriottismo

di Enrico Deaglio

Una questione un po’ di giornalismo e un po’ di patriottismo. Questo il senso dell’inchiesta che «Diario» presenta in queste pagine.
La storia è figlia dei nostri tempi (con elementi antichi e altri molto moderni) e nasce in una Londra che è oggi indubbiamente il crocevia tra politica e giornalismo, con uno scienziato nucleare suicida, i maneggi per rendere più sexy le armi di distruzione di massa e un primo ministro perlomeno enigmatico. In questo contesto, all’inizio di agosto, il settimanale «The Economist» pubblica una lunga inchiesta su Silvio Berlusconi e pone al presidente del Consiglio 28 domande molto dettagliate che riguardano le sue pendenze giudiziarie, la sua politica nei confronti della magistratura, l’origine opaca delle sue fortune. Il direttore del settimanale, Bill Emmott, non usa eufemismi: considera Silvio Berlusconi un oltraggio al popolo italiano, «il peggio della vecchia Italia» e una minaccia per la nuova Europa.
«The Economist» è stato fondato nel 1843. In quegli anni a Londra i latifondisti inglesi si opponevano alla nuova legge sul commercio del grano (la globalizzazione di allora) e Karl Marx metteva a punto il suo migliore short cut («Il Manifesto», la globalizzazione di allora). A spiegazione delle sue origini, il giornale si dichiara sostenitore «dell’intelligenza, portatrice di progresso, contro un’indegna, timida, ignoranza che questo progresso ostacola», come è scritto nella gerenza. Cronista oltremodo attento e nello stesso tempo ricercatore del vero capitalismo, quello libero, romanticamente indenne dagli abusi, il settimanale londinese ha preso posizione per le droghe libere, contro Pinochet, ha lodato (in tempi diversi) sia Thatcher sia Blair, e (in tempi diversi) sia Bush sia Clinton, ha scavato nei torbidi segreti bancari del francese Credit Lyonnais, ha approvato la guerra contro l’Iraq ed è alfiere da tempo immemore dell’abolizione della pena di morte.
Quella dell’«Economist» contro Berlusconi è una campagna che dura da almeno due anni, quando lo considerò unfit (moralmente inadatto) a guidare l’Italia. Il giornale, semplicemente, non lo sopporta. Lo considera un insulto al capitalismo liberale.
Con un milione di copie vendute ogni settimana, e con il peso della sua storia, «The Economist» non passa certo inosservato. E così, quando ha preso di mira il nostro presidente del Consiglio, le reazioni italiane si sono fatte sentire. Rozzamente, la presidenza del Consiglio lo ha incluso nel «complotto comunista» e ha dato mandato ai suoi avvocati di portarlo in tribunale, ricordando peraltro che Berlusconi gode del suffragio elettorale. L’opposizione lo sbandiera, ma non più di tanto: nessun politico ha infatti preso a cuore le 28 domande. Le televisioni pubblica e privata (ambedue sotto il controllo di Berlusconi) non ne hanno parlato. La carta stampata ha registrato la questione con un certo sussiego. Nei vari commenti che si sono letti, è trasparso un certo «ma che vogliono questi inglesi?».
«Diario» ha dedicato al tema due dei suoi numeri speciali («Berlusconeide», 30 marzo 2001 e «Berlusconeide 2, Le carte», 1 novembre 2002) e conosce bene i fatti di cui parlano i nostri colleghi londinesi. Abbiamo apprezzato la schietta ricostruzione dei fatti e l’attenzione a certi particolari che forse a noi italiani erano sfuggiti; ricordiamo nel contempo che i giornalisti italiani sulla carriera di Silvio Berlusconi hanno già pubblicato perlomeno trenta libri e centinaia di inchieste e milioni di persone sono scese in piazza per protestare contro i suoi attacchi alla magistratura.
Per cui, da patrioti – il patriottismo è soprattutto la vergogna nei confronti di chi ci governa – abbiamo esaminato le 28 domande poste dall’«Economist» alle quali Silvio Berlusconi non ha voluto rispondere. Stiamo, in effetti, parlando di questioni piuttosto pesanti: corruzione, mafia e associazione a una pessima loggia segreta, per indicarne tre. Abbiamo anche utilizzato alcune rapsodiche affermazioni che lo stesso Silvio Berlusconi ha centellinato su questi temi, ma purtroppo il suo contributo risulta piuttosto contraddittorio. «Diario» vi propone ora una risposta esauriente alle 28 domande che, secondo noi, il presidente del Consiglio potrebbe fare sua. Ci auguriamo che le forze politiche che operano in questo Paese prendano atto di quanto scriviamo. Tim Laxton, per «The Economist» ha curato l’inchiesta su Silvio Berlusconi. Gianni Barbacetto, inviato di «Diario», ha curato le risposte alle sue domande. (e.d.)


Ventotto risposte. Obiezioni?


di Gianni Barbacetto



Il giornalismo si fa
ponendo domande e pretendendo risposte. Lo ricorda Bill Emmott, direttore dell’Economist, in un’intervista all’Unità di Furio Colombo in cui ha spiegato i motivi della grande inchiesta su Silvio Berlusconi pubblicata all’inizio d’agosto. Non era certo un attacco politico su scala europea fomentato dalla sinistra; non uno sfogo da Ecomunist; né una campagna anti-italiana; non una «vendetta personale contro un uomo d’affari di successo». Era, semplicemente, giornalismo: «L’Economist ama i businessmen di successo», ha dichiarato Emmott. «Siamo una rivista del capitalismo. Celebriamo il libero mercato. Abbiamo trascorso 160 anni apprezzando il successo del capitalismo. Ma siamo contro l’abuso del capitalismo, quando cerca di distorcere le leggi. Siamo contro la corruzione delle leggi e l’abuso del potere politico a vantaggio personale... È nostro giudizio che Berlusconi – come businessman e poi come politico – porti discredito al mondo degli affari e ai veri principi del capitalismo che l’Economist rappresenta e sostiene con orgoglio. Berlusconi è importante perché danneggia la causa del successo negli affari».
E dunque, Signor Berlusconi, «answers, please». Per favore risponda a 28 domande poste dai giornalisti dell’Economist non in nome dell’eversione, ma del capitalismo. Perché il premier italiano, argomenta Emmott, è un danno per l’Italia e gli italiani, ma anche per l’Unione: «Come potrà l’Europa ottenere dai Paesi che hanno fatto domanda d’adesione – per esempio quelli dell’Europa centrale e dell’Est – che si disfino della corruzione, che separino il business dalla politica, che istituiscano un sistema giudiziario indipendente, mentre tra gli Stati fondatori della Comunità c’è un Paese governato da un uomo che sfida la giustizia e i magistrati, che incoraggia la corruzione?». Già, come farà?
In Italia, i «terzisti» evitano con cura di affrontare il cuore del problema, di pretendere quelle risposte alla pubblica opinione che chiunque fa politica deve dare, sulle origini delle sue fortune economiche, sui rapporti tra politica e affari, sulla legalità dei suoi comportamenti, su eventuali amicizie pericolose. Diario queste domande a Berlusconi le ha poste tutte, nel numero speciale Berlusconeide e in cento altre occasioni, in compagnia di altri giornali italiani – una compagnia, in verità, non proprio numerosa (e tutta trascinata in tribunale).
Ora un vecchio, prestigioso settimanale europeo le rimette tutte in fila, quelle domande, e fa apparire noi meno paranoici (ma allora avevamo ragione a insistere...) e una parte della stampa italiana più distratta e pavida.
«Answers, please»: risposte, per favore, Mr Berlusconi. Ma Diario vuole fare un passo in avanti: non gli basta riproporre le domande, questa volta vuole dare le risposte. Le risposte alle 28 domande poste dall’Economist nella versione lunga della sua lettera aperta al premier italiano, quella apparsa sul sito web del settimanale inglese. Le risposte che Berlusconi ha già dato finora (poche e insoddisfacenti). Le risposte che, secondo la nostra ricostruzione dei fatti, potrebbe dare.

Le 28 domande dell’Economist
si possono raggruppare, per comodità, in cinque capitoli:

1. Il caso Sme
2. Gli altri processi
3. Le leggi su misura
4. Il mistero delle origini
5. La loggia P2


Alle 28 domande poste dall’Economist, Diario aggiungerà qua e là altre domande, e quindi altre risposte, che ritiene importanti. Ecco le domande dell’Economist, ecco le risposte di Diario.

Le domande dell'Economist
Le risposte di Berlusconi
Le risposte di "Diario"


1. Il caso Sme

L’Economist

dedica una parte consistente del suo servizio al caso Sme, la mancata vendita nel 1985 a Carlo De Benedetti, che già possedeva la Buitoni, dell’azienda alimentare pubblica controllata dall’Iri. La cessione per 497 miliardi di lire, già concordata con Romano Prodi, allora presidente dell’Iri, fu bloccata dall’intervento di Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio, che chiese all’amico Berlusconi d’intervenire. Subito si misero in moto cordate alternative (la Iar messa velocemente insieme da Berlusconi, che convocò in un ristorante di Broni gli imprenditori Pietro Barilla e Michele Ferrero) e strani personaggi (l’avvocato Italo Scalera, l’imprenditore Giovanni Fimiani).
Nessuno, in realtà, voleva comprare davvero la Sme, con i suoi prestigiosi marchi (Cirio, Bertolli, De Rica...): l’obiettivo era quello di bloccare la prima privatizzazione italiana, che avrebbe indebolito il potere dei partiti, e di fermare De Benedetti, considerato da Craxi un avversario.
L’operazione riuscì. Dopo la miracolosa apparizione di cordate alternative e il blocco della vendita, De Benedetti aprì una vertenza giudiziaria per far valere gli impegni già stipulati. Ma le sentenze, alla fine, gli diedero torto: perché furono comprate, secondo le accuse della procura milanese, che da molti anni sta cercando – invano – di portare a termine il processo con imputati i giudici che avrebbero venduto le loro sentenze (Filippo Verde, Renato Squillante), gli intermediari che li avrebbero pagati (gli avvocati Cesare Previti e Attilio Pacifico) e il loro presunto mandante (Silvio Berlusconi).
Il presidente del Consiglio, imputato di corruzione in atti giudiziari, si è rifiutato di rispondere alle domande dei giudici. Si è presentato però in tribunale e ha ottenuto di fare (il 5 maggio e il 17 giugno 2003) «dichiarazioni spontanee»: due lunghi show, monologhi in cui ha ricostruito la sua versione dei fatti, ha gettato fango su Romano Prodi, ha infine chiesto «una medaglia» per aver impedito la svendita sottocosto della Sme.
Ora il processo è finalmente giunto alle fasi finali e si riaprirà a settembre: per tutti tranne che per Berlusconi che, come è noto, è diventato improcessabile grazie a una legge (il cosiddetto «lodo Maccanico») che garantisce l’immunità assoluta al presidente del Consiglio e ad altre quattro alte cariche dello Stato.
L’Economist nella sua accurata ricostruzione dei fatti si dilunga sulla figura e gli interventi di un imprenditore citato da Berlusconi nel suo monologo del 5 maggio davanti al tribunale: Giovanni Fimiani, titolare della Cofima (Compagnia Finanziaria Mercato Alimentari), che – come Scalera e come la Iar – aveva presentato all’Iri un’offerta più alta di quella di De Benedetti.


Le risposte di Berlusconi.

• Versione 1: ero interessato alla Sme. Il 30 ottobre 1985, interrogato come testimone dal magistrato Luciano Infelisi, che per primo ha indagato sulla vicenda Sme, Berlusconi racconta di aver costituito una cordata d’imprenditori perché voleva acquisire le aziende alimentari pubbliche.
• Versione 2: non ero interessato alla Sme. Il 5 maggio 2003, nelle sue «dichiarazioni spontanee» davanti al tribunale di Milano, Berlusconi dichiara (smentendo ciò che aveva detto nel 1985) di non aver mai avuto intenzione d’acquistare la Sme, ma di essere intervenuto nella trattativa soltanto perché glielo aveva chiesto Craxi, il quale voleva a tutti i costi bloccare De Benedetti. Dopo aver chiesto una medaglia per esserci riuscito, Berlusconi infila nel suo monologo una serie di errori: sostiene di aver avuto, all’epoca dei fatti, un «conto aperto con De Benedetti, che mi attaccava ogni giorno dai suoi giornali» – ma De Benedetti è diventato azionista di riferimento di Repubblica solo molti anni dopo; cita Giovanni Tamburino, toga di Magistratura democratica, che gli ha dato ragione in Cassazione – ma Tamburino non è mai stato di Magistratura democratica, non è mai stato in Cassazione, non ha mai giudicato il caso Sme; chiede che il tribunale acquisisca alcune lettere di Craxi all’allora ministro delle Partecipazioni statali Clelio Darida – ma queste sono già agli atti da anni. Poi attacca Prodi, parlando non ai giudici, ma ai media: non gli interessa convincere il tribunale di essere innocente, ma gli elettori che anche il suo avversario non è uno stinco di santo.
Nel secondo monologo, quello del 17 giugno, ripete cose già ben note, per esempio, ai lettori di Panorama o del Giornale: la testimone Stefania Ariosto sarebbe mitomane e falsa; l’intercettazione del colloquio tra giudici al bar Mandara di Roma sarebbe manipolata; nel «fascicolo virtuale» segreto numero 9520 della procura di Milano sarebbero nascosti documenti essenziali per la sua difesa... Non una spiegazione sui piccioli, come li chiama il pubblico ministero Ilda Boccassini, sui soldi usciti a miliardi dai conti Fininvest, passati agli avvocati e finiti sui conti dei giudici romani.
Una sola ammissione, forse sfuggita nella foga: la Fininvest aveva conti all’estero (prima sempre negati) «perché comperavamo film in tutto il mondo». Ma come mai anche Previti viene pagato dai conti esteri, come fosse un film straniero o un serial americano? «Era uno dei cento avvocati del nostro gruppo», minimizza, ingeneroso, l’amico Silvio. E i pagamenti Fininvest erano anticipi di parcelle: non è colpa nostra, fa capire Berlusconi, se poi Previti li faceva arrivare – chissà perché – sui conti di Attilio Pacifico, «che aveva un ufficio di import-export di denaro»...
In definitiva Berlusconi, abituato al fai-da-te, invece di spiegare, si loda, si giudica e si assolve: «Non ho trovato nulla, non c’è nulla, non una prova, un indizio. Non c’è neppure il movente». E poi figurarsi – dice Berlusconi allargandosi un po’ – se mai avrei fatto operazioni illecite lasciando la firma, i segni della provenienza dei soldi... «Mi sarebbe bastato prenderli dalla mia tasca...».


Signor presidente del Consiglio, sulla base della nostra ricostruzione dei fatti, queste sono le risposte alle domande sul caso Sme.

Le prove della corruzione, a differenza di quanto affermato nelle «dichiarazioni spontanee», ci sono: i movimenti di soldi dai conti Fininvest a quelli degli intermediari, fino a quelli dei giudici romani. Anche il movente c’è: bloccare la vendita della Sme a De Benedetti, come chiestole da Craxi nel 1985 e da Lei ammesso. Per Lei, era la proposta che non si può rifiutare, l’occasione di restituire un favore: pochi mesi prima, nell’autunno 1984, Craxi era intervenuto, con uno strumento di legge passato alla storia come «decreto Berlusconi», per riaccendere le tre reti Fininvest oscurate il 16 ottobre 1984 dai pretori di Roma, Torino e Pescara, i quali applicavano la legge vigente secondo cui era illegittimo per un privato trasmettere su tutto il territorio nazionale. Lei comincia a intromettersi nel caso Sme poco prima che il decreto confezionato su misura per Lei da Craxi diventi, nel 1985, legge dello Stato.

Quanto a Giovanni Fimiani (domande 2,3,4,5,6,7), è facile pensare che si inserì nella compravendita Sme, allora, su richiesta di Previti, come fece anche l’avvocato Italo Scalera, che di Previti era stato compagno di scuola. Quello che ci sembra strano, è che sia stato citato e valorizzato da Lei ora, nei suoi monologhi davanti al tribunale: oggi chiunque operi nel settore sa che Fimiani è un bancarottiere e che cerca – inutilmente – di salvarsi, addebitando il crac non ai suoi errori, ma a un complotto ai suoi danni, al ruolo – peraltro marginale – avuto nella vicenda Sme. Condannato nel 1993 per il fallimento della sua azienda, nel 1999 è già stato protagonista di un attacco a Prodi amplificato dal quotidiano britannico Daily Telegraph e poi rivelatosi fango, una manovra senza fondamento. Possibile che i Suoi avvocati, i Suoi consiglieri non Le abbiano detto niente?
E la medaglia (domanda 8) per aver impedito una svendita sottocosto? Non era il prezzo della Sme a interessare Lei, né Craxi. Il risultato di quell’intervento del 1985, in realtà, fu il blocco delle privatizzazioni in Italia, rimandate di una decina d’anni. Per un decennio ancora i partiti di governo hanno mantenuto saldo il loro potere su imprese d’ogni tipo, da cui spremevano denaro, poltrone, clientele. E la salute dei conti pubblici è peggiorata, fino all’orlo della bancarotta dello Stato. Soltanto Mani pulite, nel 1992-93, e la necessità di entrare in Europa hanno sbloccato la situazione e salvato il Paese. Le Sue dichiarazioni al tribunale, dunque, non si conciliano affatto (domanda 1) con una veritiera ricostruzione dei fatti.

Altre domande, altre risposte.
Una volta messi in fila gli avvenimenti realmente accaduti, e non quelli evocati da ricostruzioni di comodo, appare immediatamente chiaro anche perché negli ultimi mesi il fronte berlusconiano si sia tanto agitato attorno al fascicolo 9520. Come Lei ben sa, si tratta dell’ormai famoso fascicolo aperto dalla procura della Repubblica di Milano a metà degli anni Novanta, all’inizio dell’indagine sulle toghe sporche romane. La sua storia è simile a quella del mitico «fascicolo virtuale» di Mani pulite: la procura apre un fascicolo su un argomento ampio e i magistrati vi inseriscono ogni atto d’indagine che riguarda quell’argomento; poi – quando un filone si definisce, le imputazioni prendono forma e gli imputati acquistano un nome – il filone viene «stralciato», con un nuovo numero di fascicolo, e diventa un processo. Il processo Sme, per esempio, è uno di questi stralci, Imi-Sir un altro.
Ora, Lei e Previti sostenete che nel famoso fascicolo 9520 sono occultate prove fondamentali che dimostrerebbero la vostra innocenza. In realtà dentro quel faldone segreto, se c’è qualcosa, è qualcosa che si riferisce ad altri episodi di corruzione dei giudici romani, ad altre sentenze comprate, eventualmente ad altri magistrati in vendita al miglior offerente.

La procura di Milano ha affrontato processi soltanto nei casi (tre) in cui è riuscita a raccogliere prove che ha considerato solide, in cui ha ottenuto riscontri e documenti bancari dall’estero. Ma gli indizi sono molto più numerosi, il sistema di corruzione del palazzo di Giustizia di Roma ben più articolato di quanto finora non sia emerso. Lo dice un testimone privilegiato, tanto più attendibile in quanto interno a Forza Italia ed ex sottosegretario all’Interno nel Suo governo, l’avvocato Carlo Taormina, che nel 1996 dichiara pubblicamente: «Quella che sta venendo alla luce è solo una minima parte del marcio che si è sedimentato oltre ogni limite a Roma».

Se è vero ciò che dice Taormina, allora un certo numero di persone è da tempo in grande allarme, perché ancora non sa che cosa la procura di Milano sa. Poiché il fascicolo 9520 è segreto, neppure noi sappiamo che cosa contenga. Ma sappiamo ciò che già è emerso nei processi: per esempio, la storia di Enrico Manca. Nulla di penalmente rilevante, s’intende, ma un bell’esempio, molto significativo, di come andavano (vanno?) le cose in Italia.
Dirigente del Psi, Manca dal 1986 al 1992 ha guidato, come presidente, la Rai. In quegli anni ha scritto la parola fine alla durissima competizione di mercato con i concorrenti della Fininvest, arrivando a quella che è stata chiamata la pax televisiva. Ora, nell’udienza del 28 marzo 2001 del processo Sme, Manca è stato chiamato a testimoniare, sulla base di alcuni documenti raccolti proprio nel fascicolo 9520. Che cosa gli ha chiesto il pubblico ministero Ilda Boccassini? Dei suoi stretti rapporti con Cesare Previti, che per Manca, presidente della Rai, rappresentava pur sempre il «nemico», essendo uno dei più importanti avvocati della concorrenza Fininvest. Eppure ciò non ha impedito non solo numerosi e amichevoli incontri tra i due nel salotto di casa Previti, ma neppure la strana gestione di un tesoretto: sì, Previti, avvocato del «nemico», gestiva (come fosse un banchiere privato) il conto in Svizzera (in quegli anni illegale) del presidente della Rai.
Sul tesoretto di Manca, Previti (quasi sempre attraverso l’avvocato Pacifico) fa affluire negli anni molti soldi: 180 milioni di lire nel 1989, 163 milioni nel 1990, 600 milioni nel 1992, 70 milioni nel 1993. Soldi personali, garantisce Manca, non della Fininvest. Il conto in Svizzera Previti-Manca sarà chiuso in tutta fretta il 18 marzo 1996: cinque giorni dopo l’arresto del giudice Squillante.

Ilda Boccassini pone al teste Manca una domanda anche sulla vicenda P2. Sì, perché il nome di Manca era negli elenchi di Gelli, ma nessuno oggi può scrivere: «Manca era piduista». Lo impedisce una sentenza del 1985, che dichiara Manca estraneo alla loggia segreta. Suo avvocato in quella causa era Cesare Previti. Il giudice che emise la sentenza era Filippo Verde (lo stesso accusato di aver venduto la sentenza Sme).
Oggi Manca presiede un fantomatico istituto che documenta «l’innovazione multimediale». Recentemente ha dichiarato al Corriere della sera di considerare le contestazioni alla legge Gasparri sulle tv «una battaglia di retroguardia: non si può mettere le brache al mercato per combattere Mediaset».
No, non si può. Ma è proprio al mercato che sono state messe le brache, anzi la camicia di forza, in decenni di predominio berlusconiano imposto dalla politica: dal decreto di Craxi alla pax televisiva di Manca, fino alla Gasparri e al suo digitale all’italiana.

Signor presidente del Consiglio, c’è qualcosa che vorrebbe smentire, correggere, specificare, aggiungere?


2.Gli altri processi

L’Economist

stila una accurata lista dei processi che Berlusconi ha dovuto affrontare, da quello per le tangenti alla Guardia di finanza fino a quello sul lodo Mondadori, soffermandosi particolarmente su David Mills, l’avvocato londinese (marito di Tessa Jowell, ministro nel gabinetto di Tony Blair) che ha fondato la rete delle società estere Fininvest.
Racconta dei tortuosi passaggi finanziari tra offshore della Fininvest-ombra e ricorda la misteriosa vicenda del «Mandato 500». Il titolare di questo mandato, il tesoriere di Berlusconi Giuseppe Scabini, attraverso la Fiduciaria Orefici di Milano all’inizio degli anni Novanta acquista Cct per 91 miliardi di lire. Questi sono in gran parte trasformati in denaro contante in una banca di San Marino, poi trasportato da spalloni in Svizzera e accreditati nel 1991 sui conti All Iberian.
A che cosa sono serviti quei 91 miliardi? Mario Moranzoni, responsabile della tesoreria Fininvest, così spiega l’operazione al titolare della Fiduciaria Orefici: «Sa, i politici costano molto... È in discussione la legge Mammì...». Nel 1991, infatti, viene stilato il piano delle frequenze, il fondamentale strumento tecnico che rende operativa la legge Mammì sulle tv. Ma in quell’anno, ricorda l’Economist, dalla Svizzera partono anche le tangenti per i giudici del lodo Mondadori e i 21 miliardi della supertangente All Iberian per Craxi.


Le risposte di Berlusconi.


Tutte le accuse sono prive di fondamento, sono interventi giudiziari che in realtà mascherano un attacco politico, sferrato a chi ha legittimamente vinto le elezioni. Non so niente di tangenti, l’ho giurato anche sulla testa dei miei figli. Ma i comunisti, sconfitti nelle urne, cercano la rivincita attraverso la via giudiziaria. Colpevole è la parte politicizzata della magistratura, che è un cancro da estirpare. Io non sapevo nulla dei soldi dati alla Guardia di finanza, che comunque nelle verifiche fiscali blocca per settimane l’attività delle aziende e si comporta a volte come un’associazione a delinquere. Della Mondadori sono diventato proprietario in modo assolutamente legittimo. Abbiamo conti esteri, perché la Fininvest opera in tutto il mondo e compera diritti televisivi in tutto il mondo.


Signor presidente del Consiglio, sulla base della nostra ricostruzione dei fatti, queste sono le risposte alle domande sui Suoi altri processi.

Le sentenze L’hanno fatta uscire da una decina di processi con la fedina penale pulita. Ma solo grazie all’effetto combinato di attenuanti, prescrizioni, amnistia, insufficienza probatoria. Dal punto di vista razionale, è difficile credere che Lei, che aveva il controllo anche sulle più piccole spese gestite dai suoi collaboratori, non sapesse nulla, per esempio, delle tangenti pagate alla Guardia di finanza per ammorbidire le verifiche fiscali in quattro delle Sue società, Mondadori, Videotime, Mediolanum, Telepiù (domanda 10). Del resto, il pagamento di tangenti è stato accertato e i manager responsabili sono stati condannati. Non solo: sono stati condannati per falsa testimonianza due Suoi segretari (Marinella Brambilla e Niccolò Querci) che, secondo le sentenze, hanno mentito ai giudici proprio per proteggere il loro capo. E comunque nessuno dei tanti collaboratori coinvolti in vicende di tangenti è stato da Lei punito o licenziato. Anzi: manager, assistenti, segretari, sono stati tutti premiati. Molti perfino con un posto in Parlamento, qualcuno addirittura nel governo.

È ritenuto provato anche il pagamento di 21 miliardi di lire a Bettino Craxi, attraverso la società offshore All Iberian, registrata a Jersey, nelle Isole del Canale: è la più grande tangente mai versata in Italia a un singolo uomo politico. In questo come in altri casi, soltanto i tempi lunghi del processo L’hanno salvata da una condanna, impedita dalla prescrizione del reato.

Lei ha sempre negato che All Iberian fosse una società Fininvest, però la smentita è arrivata non soltanto dalle sentenze, ma ormai perfino dai Suoi stessi collaboratori. Attraverso All Iberian e il complesso sistema di società e conti esteri chiamato «Fininvest Grop B (very discreet)», è passata la tangentona a Craxi, ma anche una serie di operazioni «riservate» che vanno dalla scalata a società quotate in Borsa (come Standa e Rinascente) senza la necessità d’informare la Consob, all’acquisizione del controllo di Telepiù e Telecinco, aggirando le leggi antimonopolio in Italia e in Spagna.

Le società della «Fininvest Group B» (almeno 29) sono scatole vuote, senza dipendenti né strutture amministrative proprie, che servono soltanto a compiere in maniera anonima operazioni finanziarie proibite, a produrre fondi neri, a coprire il loro vero proprietario. Tra il 1989 e il 1996 la Fininvest-ombra ha spostato (come documenta un rapporto della Kpmg stilato per conto della procura di Milano) fondi neri per almeno 2 mila miliardi di lire. Per questo Lei ha ricevuto un’incriminazione per falso in bilancio. Il giudice per le indagini preliminari nel febbraio 2003 ha chiuso l’inchiesta con un proscioglimento generale, constatando che è scaduto il tempo per il processo, grazie alla nuova legge sul falso in bilancio che abbrevia i tempi di prescrizione. Ha però negato l’assoluzione nel merito, spiegando che Lei e i suoi coimputati (Suo fratello Paolo, Suo cugino Giancarlo Foscale, i Suoi amici e manager Adriano Galliani e Fedele Confalonieri) non possono dirsi innocenti.

David Mills (domande 9 e 13) è l’uomo chiave della Fininvest-ombra. È lui che l’ha in gran parte plasmata e gestita, da Londra. Non sappiamo dire quanto Lei lo abbia incontrato direttamente, ma certamente ciò che Mills ha fatto l’ha fatto per Suo conto. Mills è oggi il più importante dei Suoi consulenti. Ma è sempre Lei a prendere le decisioni strategiche aziendali, anche dopo il Suo ingresso in politica. «Da quando sono a Palazzo Chigi non mi occupo delle mie aziende», ha più volte ripetuto. Peccato che La smentiscano alcuni testimoni proprio dall’interno di Mediaset: «Ho continuato a parlare con Berlusconi della questione Spagna fino all’estate del 1994», racconta Oliver Novick, direttore Corporate Development; «Le indicazioni per l’acquisto dei diritti tv continuavano a venire da Arcore», aggiunge Marina Camana, ex segretaria del capo della Silvio Berlusconi Communications, Carlo Bernasconi.

Nel 1994, come certamente ricorda, Lei era diventato per la prima volta capo del governo. Ora quelle due testimonianze hanno fatto decollare una nuova indagine su di Lei, con l’accusa di frode e falso in bilancio. Suoi coimputati sono Mills, alcuni banchieri svizzeri, alcuni dei Suoi manager. Tra i reati contestati, anche il riciclaggio. Due magistrati milanesi, Fabio De Pasquale e Alfredo Robledo, stanno cercando di far luce su una storia di diritti televisivi comprati negli Stati Uniti e rivenduti a società della Fininvest B (tra cui la Century One e la Universal One, registrate nelle Isole Vergini britanniche), che poi le passavano, a prezzi maggiorati, alle società della Fininvest A. Risultato: i prezzi dei film acquistati sono stati gonfiati di almeno 170 milioni di dollari, diventati fondi neri a disposizione per operazioni «riservate».

È l’ultima indagine aperta su di Lei: si è saputo che è indagato soltanto a metà giugno 2003. Ma potrebbe diventare cruciale perché, mentre gli eventuali reati fiscali commessi tra il 1995 e il 2000 sono stati azzerati grazie al condono inventato da Giulio Tremonti (Suo ex consulente tributario, diventato Suo ministro dell’Economia), quelli del 1994 sono rimasti scoperti e perseguibili. E, secondo i magistrati, «nei conti Mediaset, a partire dal 1994, è stato sensibilmente alterato il valore del patrimonio della società con specifico riferimento ai diritti di trasmissione televisiva». Poiché quelle «sensibili alterazioni» hanno necessariamente influenzato, a catena, anche i bilanci successivi al 1994, ne consegue che «nel 1996 Mediaset», secondo De Pasquale e Robledo, «è stata quotata in Borsa sulla base di una falsa rappresentazione della consistenza patrimoniale della società».

Un’accusa che, in un Paese normale, farebbe tremare, insieme, Piazza Affari e Palazzo Chigi. In Italia, niente. Per accorgersi del caso, gran parte della stampa ha atteso che il ministro della Giustizia, ingegner Roberto Castelli, bloccasse le rogatorie che i due incauti magistrati avevano inoltrato verso gli Stati Uniti: Castelli sosteneva che il «lodo Maccanico» fermava non soltanto i processi, ma anche le indagini. Poi, dopo la rivolta di una parte della Sua stessa maggioranza (Udc e An), l’inchiesta ha potuto ripartire e ora De Pasquale e Robledo potranno volare a Hollywood a interrogare i responsabili delle Majors (Warner Bros, Paramount, Columbia Tristar, 20° Century Fox, Mca Universal Studios) che avevano venduto a misteriose società delle Isole Vergini i film poi miracolosamente arrivati (a prezzi maggiorati) a Mediaset.

Poi ci sono i processi per le «toghe sporche». Oltre a quello sulla Sme, vi è quello sul lodo Mondadori. A Lei è stata rivolta l’accusa di aver pagato, attraverso l’avvocato Cesare Previti, alcuni giudici di Roma per ottenere una decisione a Suo favore sul lodo Mondadori e dunque per poter ottenere la proprietà della più grande casa editrice italiana. Poi per Lei il processo è finito: il giudice dell’udienza preliminare Rosario Lupo l’ha prosciolta; la procura ha fatto ricorso alla Corte d’appello, che nel giugno 2001 ha così deciso: per Lei è ipotizzabile il reato di corruzione semplice, e non quello di concorso in corruzione in atti giudiziari; concesse le attenuanti generiche, il reato dunque è prescritto, poiché risale al 1991 e la prescrizione, con le attenuanti generiche, scatta dopo soli cinque anni. Prescritto, non assolto.

Fuori Lei, sono rimasti però nel gioco i Suoi coimputati (gli avvocati Cesare Previti, Giovanni Acampora e Attilio Pacifico, il giudice Vittorio Metta), condannati in primo grado. Dunque (domanda 11) vi è stata corruzione. Ma se un giudice ha venduto la sua sentenza e se alcuni intermediari l’hanno comprata, ci deve essere un mandante. Previti non ha acquistato la sentenza Mondadori per sé. Il mandante non può che essere Lei.
Del resto Lei ha ammesso di sapere (domanda 12) che esisteva, intorno al tribunale di Roma, «un ufficio di import-export di denaro», gestito dall’avvocato Pacifico: dunque Lei ha ammesso di sapere che a Roma le sentenze potevano essere comprate e vendute. Lo sapeva a tal punto, che alcuni miliardi di lire, usciti dai conti delle Sue società, sono passati proprio per quell’«ufficio».

Altre domande, altre risposte.
Lei sostiene di essere stato indagato dalla «magistratura politicizzata» in risposta al Suo impegno in politica. Questo è smentito dalle numerose indagini sul Suo gruppo avviate già nel 1992-93. Ma addirittura la prima inchiesta giudiziaria su di Lei risale a dieci anni prima, al 1983 quando, nel corso di un’indagine su droga e riciclaggio (poi chiusa senza alcuna conseguenza nel 1991), la Guardia di finanza pose sotto controllo i Suoi telefoni.
Lei e i Suoi manager siete indagati anche all’estero. Anche verso la Spagna, infatti, hanno operato le offshore della Fininvest-ombra: producendo oltre 100 miliardi di lire di frode fiscale e violando la legge antitrust spagnola per le operazioni compiute sull’emittente Telecinco. Il giudice istruttore anticorruzione di Madrid, Baltasar Garzon Real, ha dovuto comunque sospendere il processo, per l’immunità dovuta ai parlamentari europei.

Signor presidente del Consiglio, c’è qualcosa che vorrebbe smentire, correggere, specificare, aggiungere?


3. Le leggi su misura

L’Economist

racconta ai suoi lettori che negli ultimi due anni, da quando è tornato al governo, Berlusconi ha fatto varare alcune leggi che hanno reso più difficile perseguire il falso in bilancio, hanno tentato di rendere inutilizzabili le prove giunte dall’estero per rogatoria e hanno reintrodotto nell’ordinamento italiano il «legittimo sospetto», che permette di chiedere lo spostamento del processo in un’altra sede a ogni imputato che sospetti che i suoi giudici hanno scarsa serenità ambientale.


Le risposte di Berlusconi.

• Versione 1: nessuna legge su misura. La nuova legge sul falso in bilancio era necessaria per modernizzare la disciplina delle imprese, prima troppo rigida e inquisitoria. Rogatorie e legittimo sospetto erano necessarie per aumentare il garantismo nei confronti degli imputati: per impedire che documenti falsi, non controllati, entrassero nei processi; per garantire i diritti degli imputati, di tutti gli imputati, davanti a giudici non sereni né imparziali.
• Versione 2: solo tre su 350. «Abbiamo il record di 350 disegni di legge e decreti legge... Se ci si riferisce ai tre testi adottati con gli strumenti della democrazia in risposta ad azioni derivanti dall’esercizio di un ruolo di funzionari della giustizia mirante ad attaccare, con la giustizia, i nemici politici, ebbene si tratta solo di tre casi su 350, quindi appena l’1 per cento».
Questa incredibile ammissione Berlusconi l’ha fatta davanti al Parlamento europeo il 1 luglio 2003, nella stessa replica in cui ha dato del kapò al deputato tedesco Martin Schulz che aveva osato criticarlo.


Signor presidente del Consiglio, sulla base della nostra ricostruzione dei fatti, queste sono le risposte alle domande sulle leggi su misura.

Le tre leggi sono state pensate non a Roma, ma a Milano, nel contesto dei processi in cui Lei era imputato. Molte delle eccezioni presentate in aula a Milano dai Suoi avvocati (e respinte) si sono rimaterializzate in Parlamento a Roma, sotto forma di proposta di legge. Del resto i Suoi due principali avvocati, Gaetano Pecorella e Niccolò Ghedini, sono anche deputati del Suo partito e il primo è presidente della Commissione giustizia.

La nuova disciplina sul falso in bilancio (domanda 14) ha risolto molti Suoi problemi giudiziari, depenalizzando e riducendo i tempi della prescrizione. Sono stati così chiusi alcuni processi (All Iberian 2: falso in bilancio per non aver iscritto nei libri contabili della Fininvest l’uscita dei 21 miliardi regalati a Craxi; consolidato Fininvest: per non aver registrato nei bilanci la contabilità delle società offshore; processo Lentini: per non aver iscritto a bilancio il versamento in nero di una decina di miliardi dalle casse del Milan a quelle del Torino calcio, per l’acquisto del calciatore Gianluigi Lentini). Quella legge è stata poi utile, naturalmente, anche a molti Suoi amici e collaboratori (tra cui Marcello Dell’Utri) che hanno problemi giudiziari simili ai Suoi.

Il cambiamento delle norme sulle rogatorie (domanda 15) avrebbe invece dovuto bloccare la possibilità d’utilizzare nei processi di Milano sulle «toghe sporche» le prove arrivate dall’estero (i documenti bancari che attestano i passaggi di denaro). Prima i Suoi legali hanno fatto, a monte, una strenua opposizione, specialmente in Svizzera e Gran Bretagna, alla trasmissione dei documenti in Italia. Poi, persa quella battaglia, hanno escogitato il modo di bloccare a valle l’utilizzabilità di quelle carte.

Ma il tribunale di Milano e poi quelli di gran parte d’Italia hanno ritenuto prevalente, rispetto alla nuova legge, la forza delle convenzioni internazionali: così hanno continuato a utilizzare le prove correttamente raccolte all’estero. A questo punto, è spuntata la legge sul «legittimo sospetto» (domanda 16), per bloccare comunque, in extremis, i processi di Milano. La formulazione definitiva della legge, voluta dal presidente della Repubblica, ha reso però più circoscritto, rispetto al testo iniziale, il concetto di legittimo sospetto, tanto che la Cassazione ha respinto le richieste dei difensori di Berlusconi e Previti.

Durante l’iter per l’approvazione di queste tre leggi, in Italia è nato un grande movimento (detto «dei girotondi») che ha coinvolto milioni di persone e dato vita a imponenti manifestazioni di protesta contro quelle che sono state chiamate «leggi su misura».
Altre domande, altre risposte. A questo punto, dopo il flop delle leggi su rogatorie e legittimo sospetto, è stato necessario ripescare l’idea di un parlamentare dell’opposizione, Antonio Maccanico, che aveva proposto la sospensione dei processi per le cinque più alte cariche dello Stato, tra cui il presidente del Consiglio (che comunque è l’unico ad averne bisogno). Così nel giugno 2003 è stata votata in fretta e furia quella legge che ha risolto definitivamente (se passerà l’esame della Corte costituzionale) ogni Suo problema giudiziario in Italia.

Ma le leggi su misura non sono solo le tre citate dall’Economist. Quelle sono le più clamorose, ma non le uniche. Per bloccare uno dei due processi in corso a Palermo contro il senatore Marcello Dell’Utri è stata introdotta una norma che vieta d’utilizzare come prove a carico di parlamentari intercettazioni e tabulati telefonici. Per bloccare il processo a Previti, dopo la prima condanna a 11 anni per Imi-Sir, è stata rapidamente approvata in Parlamento la legge sul patteggiamento allargato, che concede agli imputati di patteggiare la pena anche per reati molto gravi, punibili con pene fino a cinque anni, ma che soprattutto concede uno stop di 45 giorni ai processi in corso, per dare modo agli imputati di riflettere se chiedere o no il patteggiamento.

Una norma stravagante, che va contro la «ragionevole durata» dei processi, ma che è servita a Previti per bloccare il processo per tre mesi: 45 giorni per pensare al patteggiamento (anche se ha già detto che non lo chiederà) più 45 giorni di pausa feriale estiva. Grazie a questa legge assurda – contro la quale è già stata sollevata l’eccezione d’incostituzionalità – l’intero sistema processuale italiano rischia un ingorgo senza precedenti. Ma intanto Previti ha guadagnato altri tre mesi: la prossima udienza del processo Sme è infatti convocata per il 29 settembre (giorno, per uno scherzo del destino, del Suo compleanno). E magari nel frattempo arriverà qualche altra legge su misura.

Al pubblico ministero Ilda Boccassini, che in aula ribadiva che comunque l’accusa non concederà mai il proprio consenso (vincolante) al patteggiamento, anche perché per Previti la pena richiesta (11 anni) è ben superiore ai cinque previsti dalla legge, l’avvocato Carlo Sammarco, difensore di Previti, ha risposto: «Il pm confonde il presente con il futuro. E poi tra 45 giorni non sappiamo cosa accadrà al pm...». Una battuta, solo una battuta. Riferita probabilmente all’inchiesta ministeriale aperta nei confronti della procura di Milano e all’indagine penale avviata dalla procura di Brescia. Ma una battuta che suona sinistra e agghiacciante, nell’Italia dei magistrati uccisi a colpi di kalashnikov o di tritolo, tanto più se rivolta a chi ha lavorato su importanti indagini di mafia, ha visto morire l’amico e maestro Giovanni Falcone e poi ha contribuito a farne arrestare gli assassini.

Signor presidente del Consiglio, c’è qualcosa che vorrebbe smentire, correggere, specificare, aggiungere?


4. Il mistero delle origini

L’Economist

si addentra con grande impiego di dati, cifre e tabelle nelle operazioni che stanno all’origine dell’impero berlusconiano, ripercorrendo le più oscure tra le manovre finanziarie realizzate (spesso attraverso prestanome e «franco valuta», quindi senza trasparenza sui soggetti che davvero operano) dalle sue innumerevoli società della prima ora (Cantieri Riuniti Milanesi, Sogeat, Palina, Edilnord, Fininvest srl, Fininvest Roma, Coriasco...).
Si interroga sul ruolo del commercialista siciliano Giovanni Dal Santo. E sulle transazioni con la giovane marchesina Anna Maria Casati Stampa.


Le risposte di Berlusconi.

Tutto regolare, tutto a posto. Io e la mia famiglia siamo i soli proprietari delle mie aziende. Le operazioni finanziarie compiute e la struttura societaria scelta dai miei consulenti erano volte a ottenere un risparmio fiscale.


Signor presidente del Consiglio, sulla base della nostra ricostruzione dei fatti, queste sono le risposte alle domande sulle origini delle sue aziende.

Lei, giovane intraprendente, racconta di essere diventato imprenditore, nei primi anni Sessanta, proponendo al Suo principale di costituire insieme una società, cinquanta e cinquanta. Il Suo principale era Pietro Canali, un costruttore milanese cliente della Banca Rasini (dove lavorava Suo padre Luigi, che a fine carriera era diventato direttore generale). Canali Le aveva dato lavoro già dagli anni dell’università e Lei si era dimostrato abile, tanto da diventare rapidamente direttore commerciale dell’impresa di Canali. La società si è fatta ed è stata battezzata Cantieri Riuniti Milanesi. L’operazione che porta subito a termine è l’edificazione di un palazzo rivestito di piastrelle blu in via Alciati, alla periferia di Milano. Lei era riuscito ad avere i permessi comunali per costruire, e questo è il Suo contributo alla società. Per il resto, l’esperienza la mette Canali, i soldi arrivano dalla Banca Rasini.

Dopo quel colpaccio, Lei non si ferma più. Tra il 1964 e il 1969 costruisce un intero quartiere residenziale a Brugherio, nell’hinterland milanese. Negli anni Settanta edifica Milano 2, la città satellite nel comune di Segrate. Tra il 1979 e il 1990 realizza a Basiglio una nuova cittadella, Milano 3; costruisce il centro commerciale Il Girasole a Lacchiarella; e progetta il villaggio residenziale Costa Turchese, a sud di Olbia, in Sardegna.

A realizzare il Suo decollo imprenditoriale sono società dietro cui è impossibile capire chi opera, e soprattutto chi mette i soldi. L’urbanizzazione di Brugherio è realizzata dalla Edilnord sas di Silvio Berlusconi e C., in cui Lei figura, insieme ad altri, come «socio d’opera» o «accomandatario», mentre soci «accomandanti» sono Carlo Rasini e l’avvocato d’affari svizzero Renzo Rezzonico, rappresentante di una finanziaria di Lugano, la Finanzierungesellschaft für Residenzen Ag. I soldi, dunque, arrivano dalla Svizzera, ma gli investitori restano protetti dall’impenetrabile schermo di una finanziaria dal nome impronunciabile.

Per costruire Milano 2, invece, nasce il 29 settembre 1968 (giorno del Suo trentaduesimo compleanno) una seconda Edilnord, la Edilnord Centri Residenziali sas di Lidia Borsani e C. Lidia Borsani è una Sua giovane cugina ed è socia accomandataria; accomandante, anche in questo caso, è una finanziaria svizzera, l’Aktiengesellschaft für Immobilienanlagen in Residenzentren Ag di Lugano che fornisce il capitale ed è sempre rappresentata dall’avvocato Rezzonico. È a capitale svizzero anche la società che costruisce Milano 2, la Italcantieri srl, fondata nel 1973 da due fiduciarie ticinesi, la Cofigen Sa (rappresentata da un giovane praticante notaio) e la Eti Ag Holding (rappresentata da una casalinga di nome Elda Brovelli). Dietro la Cofigen si intravvede il discusso finanziere svizzero Tito Tettamanti. Dietro la Eti, l’avvocato d’affari Ercole Doninelli, a cui fa capo anche la Fimo, una finanziaria svizzera coinvolta in numerose inchieste su riciclaggio e traffico di droga. La Italcantieri, che ha per amministratore unico Luigi Foscale (padre di Giancarlo e Suo zio), sarà comprata dalla Fininvest srl in due tranche, nel luglio 1975 e nel novembre 1976.

Nel 1970 nasce una terza Edilnord sas, con la cugina Lidia Borsani sostituita dalla madre, Maria Bossi, Sua zia. Una quarta vede la luce nel dicembre 1977, quando come socio accomandatario, al posto dei parenti, entra un professionista, Umberto Previti, commercialista calabrese padre del futuro ministro Cesare Previti. Questa Edilnord sarà liquidata dopo tre sole settimane di vita, il 1 gennaio 1978.

Per commercializzare gli immobili di Milano 2 entra in scena la Sogeat (Società Generale Attrezzature di Walter Donati). Donati è un uomo che lavora per Lei, ma anche alle sue spalle, come a quelle della Sogeat, ci sono misteriose società svizzere. Tra il 1967 e il 1975, in Edilnord e Sogeat confluiscono almeno 4 miliardi di lire, di provenienza sconosciuta (domanda 18).

Era intanto nata a Roma, il primo giorno di primavera del 1975, la Finanziaria d’Investimento (Fininvest) srl. L’avevano data alla luce due società fiduciarie della Banca Nazionale del Lavoro, la Saf e la Servizio Italia, entrambe operanti su mandato di Suo cugino Giancarlo Foscale. Foscale è nominato amministratore unico, del collegio sindacale fanno parte Umberto Previti, suo figlio Cesare e Giovanni Angela, uomo della Bnl. Nel novembre successivo la Fininvest si era trasformata in spa e aveva trasferito la sede sociale a Milano. Nel 1978, le stesse fiduciarie Saf e Servizio Italia generano la Fininvest Roma srl, amministratore unico Umberto Previti, che il 7 maggio 1979 realizza una fusione per incorporazione con la Fininvest spa milanese e un mese dopo, il 28 giugno, cambia nome (torna a chiamarsi Fininvest srl) e sede (torna a Milano). Con finalmente Lei, Silvio Berlusconi, presidente e un consiglio d’amministrazione formato da Suo fratello Paolo e da Suo cugino Giancarlo Foscale.

Per undici anni, dalla nascita della seconda Edilnord, nel 1968, fino alla terza Fininvest, del 1979, Lei si era nascosto dietro una schiera di parenti, prestanome, teste di legno, in un gioco opaco e complicatissimo di società con capitali di provenienza ignota, di cui si sa soltanto che provengono dalla Svizzera (o meglio: di cui la Svizzera è l’ultimo passaggio in un percorso di cui si perdono le tracce). A partire dal 1979, dunque, i veri amministratori della Fininvest sono finalmente visibili. L’opacità però si trasferisce a monte: nelle 23 (ma diventeranno 38 per poi ridursi a 22) società chiamate Holding Italiana Prima, Seconda, Terza e così via, che acquistano il controllo della Fininvest, in un intrico bizantino di scatole cinesi, incroci e passaggi.

Nelle diverse Fininvest entrano molti soldi. Da dove vengano è spesso impossibile capirlo. La Fininvest spa il 6 aprile 1977 delibera un aumento di capitale di ben 8 miliardi (oggi, se ci fossero ancora le lire, sarebbero più di 45). Secondo la legge allora vigente, però, gli aumenti di capitale superiori ai 2 miliardi avevano bisogno dell’autorizzazione del ministero del Tesoro. Lei la richiede e la pratica s’avvia. Ma il Tesoro chiede, come di norma, alla Banca d’Italia di svolgere la sua istruttoria e Bankitalia pretende informazioni precise sulla società, sui soci, sulle operazioni finanziarie.

Invece di fornirle, Lei e i suoi consulenti il 29 novembre 1978 revocate l’aumento di capitale già deliberato ed escogitate un modo per ottenere lo stesso risultato senza fornire quelle informazioni. Viene fondata la Fininvest Roma, che aumenta il suo capitale da 20 milioni a 18 miliardi, con un’operazione da 17,98 miliardi realizzata il 7 dicembre 1978. Poi viene messa in atto la fusione delle due Fininvest: ai 18 miliardi di capitale della Fininvest Roma si sommano così i 2 miliardi della Fininvest «milanese», con il risultato di portare il capitale a 20 miliardi. Poi partono tre operazioni – Padana da 6 miliardi, Ponte da 11, Palina da 15 – che immettono in Fininvest complessivamente 32 miliardi. Aggiunti ai 20 precedenti, ecco che la Fininvest ha un capitale sociale di 52 miliardi. Senza alcuna autorizzazione del Tesoro, senza alcuna informazione a Bankitalia.
Da dove vengano i soldi delle quattro operazioni realizzate in questo complesso gioco tra Roma e Milano non si sa.

Intanto l’assemblea Fininvest il 2 dicembre 1977 aveva deliberato un «finanziamento soci» di 16,43 miliardi (oggi sarebbero un centinaio). In realtà il denaro arriva in 25 piccole tranche, in un periodo di 17 mesi, dal 28 febbraio 1977 al 2 agosto 1978. Nessuna carta spiega la provenienza delle somme. Si sa soltanto che, dopo qualche tempo, la società restituisce quel finanziamento, attraverso assegni Banca Popolare di Abbiategrasso firmati da Giancarlo Foscale, girati in bianco da Servizio Italia e consegnati nelle mani di Giovanni Dal Santo, un uomo che compare in tanti passaggi importanti della Sua storia finanziaria (domande 19 e 20).

Poi partono le quattro operazioni che permettono di portare il capitale Fininvest a 52 miliardi. Il 7 dicembre 1978 è il giorno di un «giro finanziario chiuso» (ce ne sono almeno sei in questo periodo) che fa partire ben 17,98 miliardi da un ordinante sconosciuto. Questi vanno alla Fininvest «milanese», poi si dividono tra Saf e Servizio Italia, si riuniscono sui conti di zio Luigi Foscale, passano a Lei, poi alla Saf, indi alle Holding 1-19, infine alla Fininvest Roma, per poi tornare allo sconosciuto iniziale.

È un giro contabile a somma zero: soldi veri non ne girano. Ma, nel circolo contabile, le fiduciarie Saf e Servizio Italia vengono rimborsate da Fininvest del finanziamento soci di 16,43 miliardi, li passano al loro rappresentante Foscale, che li dà al proprietario, cioè a Lei, che li integra con una piccola somma (540 milioni) e poi li passa alle Holding, le quali con quei soldi sottoscrivono l’aumento di capitale di 17,98 miliardi della Fininvest Roma (che, essendo una srl, può ritoccare il capitale senza l’autorizzazione del Tesoro). È l’aumento che serve ad arrivare, come abbiamo visto, ai 18 miliardi. Gli unici soldi veri che entrano nel circolo sono i 540 milioni messi da Lei di tasca Sua.

TANTE PICCOLE HOLDING. Dopo la fusione tra le due Fininvest, dunque, entrano in campo le Holding. Queste, a dispetto del nome altisonante, sono semplici srl (società a responsabilità limitata): così gli aumenti di capitale si possono fare in casa, senza intrusi che vogliano guardare le carte. Sono fondate il 19 giugno 1978 a Milano da Nicla Crocitto, un’anziana casalinga abitante a Milano 2, che detiene il 90 per cento delle quote e viene nominata amministratore unico delle società, mentre il restante 10 per cento è intestato al marito, il commercialista Armando Minna, già sindaco della Banca Rasini e poi Suo consulente. Capitale sociale: il minimo, 20 milioni per Holding.
Tra il 4 e il 5 dicembre 1978 escono di scena i due prestanome iniziali delle Holding e arrivano, al loro posto, due fiduciarie: Saf e Parmafid. Tra il 29 giugno e il 19 dicembre 1979 alle Holding vengono compiuti robusti conferimenti, per 26 miliardi. Alla fine, il capitale sociale della Fininvest (52 miliardi) è quasi interamente controllato dalle 23 Holding (per 49,98 miliardi), tranne una piccola quota (2,02 miliardi) direttamente nelle Sue mani.

Di chi sono le Holding? Mie, ha sempre risposto, anche se Lei non ha mai potuto spiegare in maniera del tutto convincente il perché di una struttura societaria tanto complicata. Accanto a 38 Holding, oltretutto, ci sono cinque Holdifin, più una Holding Elite. La moltiplicazione delle Holding serve, di nuovo, a realizzare aumenti di capitale senza che il Tesoro e la Banca d’Italia si mettano a curiosare nelle cose del Suo gruppo: se ciascuna può avere un capitale di 2 miliardi, ecco che, essendo almeno 22 o 23, il capitale può essere moltiplicato per 22 o 23 volte. Il punto è che il pagamento delle quote, comunque, avviene in contanti e dunque anche questa volta non resta alcuna traccia della provenienza di denaro.

Tra il 1978 e il 1985 nelle Holding entrano 93,93 miliardi (oggi sarebbero oltre 340). Il fatidico 7 dicembre 1978, come abbiamo visto, le Holding 1-18 aumentano il capitale da 20 milioni a 1 miliardo l’una, con un afflusso di 17,98 miliardi. Nuovo amministratore unico diventa Luigi Foscale, mentre Giovanni Dal Santo è nominato sindaco. Chi versa le quote? Il fiduciante, cioè Lei, dicono le carte, ma «non risulta alcuna evidenza del movimento contabile».

il riciclaggio dal santo. Il 21 marzo 1979, primo giorno di primavera, avviene un’operazione che ha per protagonista Dal Santo. La società Coriasco, controllata dalla fiduciaria Saf su mandato di Luigi Foscale, attua un aumento di capitale di 2 miliardi di lire. La transazione avviene, anche questa volta, «franco valuta»: quel giorno è Dal Santo che, con una telefonata, dà ordine alla Saf di sottoscrivere l’aumento di capitale e fa pervenire alla fiduciaria (come risulta dagli appunti rintracciati nella sede della Saf) 2 miliardi in contanti, che poi vengono versati alla Cariplo e alla Banca Popolare di Novara, in cambio di due assegni circolari per 2 miliardi. La Saf li gira alla Coriasco, che così ufficialmente ha aumentato il suo capitale attraverso l’ingresso di due assegni, anche se in realtà l’operazione è avvenuta per contanti: Dal Santo, il primo giorno di primavera del 1979, attraverso Coriasco ha riciclato 2 miliardi di lire di cui si ignora la provenienza (domanda 24).

Il 29 giugno 1979 nelle Holding entrano 6 miliardi, per l’aumento di capitale delle Holding 1-6. Arrivano da due fonti: 4,8 miliardi da un soggetto non identificato; e 1,2 miliardi dalla Fiduciaria Padana (una società riconducibile al gruppo Berlusconi) che li riceve da Fininvest Roma in cambio di tre società fiduciariamente gestite da Riccardo Maltempo (un prestanome che lavorava in un’officina meccanica) e rappresentate da Giovanni Dal Santo.

Il 4 ottobre 1979 scatta l’operazione Ponte: arrivano 11 miliardi alle Holding 7-17, come prestito obbligazionario. I soldi partono dalla Ponte srl, passano per Saf, Holding 7-17, Fininvest, Italiana Centro Ingrosso srl, e con cinque giroconti ritornano alla società Ponte, rappresentata da Enrico Porrà, un invalido di 75 anni colpito da ictus.
Porrà risulta essere il titolare di altre sei o sette società, tra cui la Palina srl, una società fondata il 19 ottobre 1979 da lui e da Adriana Maranelli, una colf emiliana: altri prestanome, come il meccanico Maltempo, come la casalinga Crocitto... Porrà, quando c’è da firmare qualche documento, va dal notaio su una carrozzella spinta dai Suoi consulenti. Maranelli invece, contattata nel 2000 dai giornalisti del settimanale L’Espresso, ha dichiarato: «Fu la signora Itala Pala, presso cui ero a servizio, a chiedermi di firmare quelle carte nello studio del suo amico, il ragionier Marzorati, un consulente di Berlusconi. Mi dissero che non c’era niente di illecito e mi pagarono per farlo».

Presso l’abitazione della signora Pala erano domiciliate molte società, tra cui, appunto, la Ponte e la Palina (in onore alla padrona di casa?). Proprio la Palina il 19 dicembre 1979 è al centro di una delle operazioni più misteriose e ricche della storia berlusconiana. Quel giorno infatti Palina versa 27,68 miliardi di lire (oggi sarebbero circa 120 miliardi) alla Saf, che li trasferisce alle Holding 1-5 e 18-23, che li passano alla Finivest, che li paracaduta alla Milano 3 srl, che li restituisce alla Palina.

Un giro completo, e apparentemente vizioso. Con quale scopo? Anche in questo caso, è un circolo contabile chiuso. Rispetto ad altre operazioni circolari (quella del 7 dicembre 1978, quella della Ponte...), l’operazione Palina ha però una particolarità: abbiamo a disposizione qualche informazione in più. Sappiamo che i 27,68 miliardi dati alla Palina dalla Milano 3 risultano essere il pagamento di 2 mila azioni della Cantieri Riuniti Milanesi, amministrata da Marcello Dell’Utri. Una bella cifra, se si pensa che quelle stesse azioni erano state pagate dalla Palina, poche settimane prima, soltanto 4,26 miliardi: in pochi giorni, una gigantesca plusvalenza fatta in casa.

Le azioni erano state acquisite in parte (400 mila azioni) dall’Unione Fiduciaria, in parte (800 mila azioni) da una fiduciaria di nome Siraf, in parte (altre 800 mila azioni) da Anna Maria Casati Stampa, la marchesina che Le aveva venduto, grazie ai buoni uffici di Cesare Previti, la villa San Martino di Arcore e grandi terreni a Cusago. Proprio per quei terreni, la marchesina era stata pagata con le azioni della Cantieri Riuniti e, quando aveva chiesto di essere liquidata, nel novembre 1979, Palina le aveva pagato 1,7 miliardi di lire e poi aveva girato quelle azioni, insieme alle altre acquisite dalla Siraf e (per 860 milioni) dall’Unione Fiduciaria, alla Milano 3, realizzando una prodigiosa moltiplicazione del loro valore, almeno sulla carta.

Non ci sono sicurezze su chi ci sia dietro la Siraf, né dietro l’Unione Fiduciaria, società delle Banche Popolari. Si sa soltanto che i fissati bollati siglati da Giorgio Bergamasco, il tutore della marchesina Casati Stampa, fanno riferimento a passaggi d’azioni per 2,56 miliardi: la somma di quanto pagato ufficialmente alla marchesina più quanto dato all’Unione Fiduciaria. Ciò apre un’ipotesi: se anche le azioni vendute dall’Unione Fiduciaria fossero della marchesina, il pagamento reale dei terreni di Cusago sarebbe un po’ meno giugulatorio di quello che appare, perché ci sarebbe un’aggiunta di «nero». L’alternativa è che Anna Maria Casati Stampa, nelle mani del tutore ufficiale Giorgio Bergamasco e del tutore di fatto Cesare Previti, sia stata truffata. Come accadrà con la Sua Villa di Arcore, pagata soltanto 500 milioni: a meno che anche qui non ci fosse una consistente parte in nero (domande 22 e 23).

SILVIO IL PARRUCCHIERE. Tra il Natale 1979 e il Capodanno 1980 dalle Holding arrivano alla Fininvest altri 25 miliardi di lire (dell’epoca). Di questi, 4,3 miliardi sono versati da Lei in persona alla Saf, il resto non ha nome. Il 5 marzo 1981 sui conti della Holding Italiana Prima presso la Banca Rasini piovono 3 miliardi in assegni, che escono lo stesso giorno. Il 26 marzo 1984 le Holding 1-5 e 12-13 ricevono 7,179 miliardi: arrivano in assegni della Banca Rasini, firmati da Lei. Altro finanziamento il 16 maggio: a beneficiarne, questa volta, le Holding 13-18, che ricevono 2,297 miliardi, in assegni circolari. La documentazione bancaria non dice da dove provengono tutti questi soldi, Lei non lo ha mai spiegato.

Chi ha dovuto cercare di capire è Francesco Giuffrida, un funzionario della Banca d’Italia incaricato dalla procura di Palermo di compilare una relazione tecnica sui flussi finanziari delle Sue società. Sulla sua strada Giuffrida ha incontrato non poche difficoltà. Innanzitutto perché molte operazioni cruciali vengono eseguite, come abbiamo visto, «franco valuta», cioè direttamente dai titolari delle società date in gestione alle fiduciarie, senza passare dalle fiduciarie. Dunque senza lasciare tracce nei loro libri contabili (domanda 25).

Ma le difficoltà non sono limitate a problemi tecnico-contabili. La Banca Popolare di Abbiategrasso, per esempio, dichiara «di avere disponibili gli estratti conto delle Holding per il dicembre 1978 limitatamente ad alcune Holding, infatti per 13 di esse la pellicola microfilmata risulta essersi bruciata». E la Banca Popolare di Lodi (l’istituto che nel 1991 ha incorporato la Banca Rasini) in un primo momento nega che la Rasini abbia mai «intrattenuto rapporti attivi e/o passivi» con le Holding di Berlusconi e con altre società e manager del Suo giro. Nell’anagrafe aziendale della banca, però, le società richieste sono presenti: ma catalogate sotto la curiosa voce «Servizi di parrucchieri e istituti di bellezza». Solo dopo qualche insistenza la Popolare di Lodi cambia versione e risponde che sì, «la Rasini aveva intrattenuto conti correnti con le società in esame sin dal 1978». Non solo: è in questa occasione che si scopre che le Sue Holding non erano 22, ma 38, e che a esse si aggiungevano cinque Holdifin e una Holding Elite. Quest’ultima è costituita il 22 febbraio 1979 da Roberto Massimo Filippa, che è l’amministratore unico della fiduciaria Parmafid. Al termine del suo difficile lavoro, nel 1999, analizzata tutta la documentazione disponibile, il consulente Giuffrida ha dovuto concludere che moltissime operazioni sono inspiegabili, che molti protagonisti sono senza volto.

La controprova che nella Sua storia finanziaria resta sempre un fondo inaccessibile, qualcosa d’inspiegabile, viene dal Suo stesso fronte. Nel processo in cui Marcello Dell’Utri, uno dei manager a Lei più vicini, è imputato a Palermo con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, la difesa ha presentato una perizia di parte per spiegare finalmente tutto e diradare ogni punto oscuro. Ebbene, il perito incaricato da Dell’Utri, il docente dell’università Bocconi Paolo Iovenitti, ha dovuto ammettere in aula che neppure a lui è stata messa a disposizione tutta la documentazione: la sua perizia parte dal 1978; gli anni cruciali, tra il 1975 e il 1978, restano inspiegabilmente fuori, non sono stati esaminati. Un tocco di colore: il professor Iovenitti così racconta la nascita della Fininvest: «Contro la volontà del dottor Berlusconi, milanese verace, viene costituita a Roma e poco dopo segue un’altra Fininvest, sempre a Roma, denominata Fininvest Roma...».

I SOLDI IN SVIZZERA. Come spiegare tanti misteri sulle origini delle Sue fortune? I primi soldi, quelli per realizzare i palazzi blu di via Alciati, provengono certamente dalla Banca Rasini, di cui era direttore generale Suo padre. Poi le fonti di finanziamento si fanno più oscure, ma certamente passano per la Svizzera.
Una spiegazione del canale elvetico è contenuta nella Sua biografia pubblicata nel 1994 da Paolo Madron (Le gesta del Cavaliere, Sperling&Kupfer) e oggi introvabile. Una biografia autorizzata, che può essere ritenuta in qualche modo almeno semi-ufficiale: «Le città giardino di Berlusconi sono servite (...) per far rientrare le valigie di soldi a suo tempo depositate nella vicina Svizzera. Alla fine degli anni Sessanta le vie che portano al Paese degli gnomi sono intasate di spalloni che vanno a mettere al sicuro il denaro della ricca borghesia terrorizzata dai sequestri (ci provano anche con il padre di Berlusconi). (...) Il Cavaliere va da Rasini e gli chiede di appoggiarlo su quei suoi amici, clienti o meno della banca, che hanno portato fuori tanti soldi».

I Suoi primi palazzi sarebbero dunque costruiti con i capitali nascosti all’estero dalla ricca borghesia lombarda che, con la garanzia del banchiere Carlo Rasini, accetta di affidarli a Lei, giovane e promettente imprenditore, che li fa fruttare, con soddisfazione degli anonimi investitori. È una spiegazione semplice, lasciata filtrare in una biografia autorizzata, anche se mai ammessa apertamente: perché comunque getterebbe sui primi passi dell’imprenditore Berlusconi l’ombra di pesanti violazioni di leggi valutarie e societarie.

Più complicato, però, spiegare i massicci finanziamenti che, dopo il 1975, piovono sulla Fininvest e sulle Holding che la controllano, senza documentazione contabile. Una prima possibilità: sono profitti da Lei realizzati in nero, un gigantesco fiume extracontabile alimentato dall’acqua dalle vendite di immobili e, in seguito, di pubblicità televisiva. Spiegazione a basso profilo d’illegalità (per quanto il falso in bilancio, le false scritture contabili, l’esportazione di capitali fossero, all’epoca, ancora reati gravi).

Ma davvero il nero può spiegare l’intero afflusso di capitali che hanno nutrito le Sue società? Difficile. Come spiegare, allora, da dove vengono i soldi, o almeno parte dei soldi? Alcune piste portano in Sicilia. È siciliano Luigi Aldrighetti, nato a Palermo nel 1935, amministratore della Compagnia Fiduciaria Nazionale spa, che almeno in due occasioni conferisce denaro alle Sue società. Fa entrare soldi nella Fininvest Roma, come dimostrato da una traccia rimasta nel bilancio Fininvest 1980: «Titoli in amministrazione fiduciaria presso Compagnia Fiduciaria Nazionale di Milano nostra partecipazione 50 per cento, lire 19 miliardi». Ed entra in una delle operazioni finanziarie sopra citate, realizzata attraverso il prestanome Riccardo Maltempo. Secondo una testimonianza resa alla Dia (Direzione investigativa antimafia) di Palermo (di cui però non è stato possibile provare l’attendibilità), la Compagnia Fiduciaria Nazionale, che aveva sede a Milano in Galleria De Cristoforis, avrebbe avuto rapporti finanziari spregiudicati.

È siciliano Giovanni Dal Santo, nato a Caltanissetta nel 1920. Ebbe ruoli importanti nelle Sue società in momenti cruciali: nella Milano 3 srl quando acquista i Cantieri Riuniti Milanesi da Palina realizzando una miracolosa plusvalenza; nell’Immobiliare Idra quando compra villa San Martino; nell’Istifi (di fatto la banca interna del gruppo Fininvest), di cui è stato il primo presidente e amministratore delegato dal 1976 al gennaio 1978; ed è lui a riciclare, nel marzo 1979, 2 miliardi di lire attraverso Saf e Coriasco. È lui, poi, che scende da Milano in Sicilia ad acquisire le antenne necessarie per costituire i Suoi network televisivi: non senza contatti con personaggi e ambienti mafiosi, come documenta il rapporto stilato per la procura di Palermo dal maresciallo della Dia Giuseppe Ciuro (domanda 21).

Intrattiene rapporti – anzi, relazioni pericolose – con la Sicilia anche la Parmafid, la fiduciaria che fino al 1994 controlla quote significative delle Holding, ed esattamente il 49 per cento di Holding Italiana Prima e il 10 per cento di Holding Italiana Seconda, Terza, Quarta, Quinta, Ventunesima e Ventiduesima. La Holding Italiana Prima, a sua volta, detiene il 100 per cento di Holding Italiana Sesta e Holding Italiana Settima, oltre al 51 per cento di Holding Italiana Ventiduesima. Dunque un consistente pacchetto della Fininvest è controllato, fino al 1994, dalla Parmafid.

Chi c’è dietro? La risposta ufficiale è naturalmente che sia Lei a utilizzare questa fiduciaria per controllare quote delle Sue società. Il caso però vuole che non sia in buona compagnia. Parmafid infatti è una fiduciaria milanese con due soci visibili, i commercialisti Roberto Massimo Filippa e Michela Patrizia Natalini, dietro cui si muovono personaggi di ben altro peso: sono clienti di Parmafid, infatti, Joe Monti e Antonio Virgilio, arrestati come «colletti bianchi» della mafia a Milano nel blitz di San Valentino, il 14 febbraio 1983. Per la procura di Palermo, sono loro i veri padroni di Parmafid. Virgilio, sempre secondo la procura di Palermo, è affiliato «di Pippo e Alfredo Bono della famiglia mafiosa di Bolognetta» e «attraverso la Parmafid controllava tutto il suo gruppo imprenditoriale». Ma Monti e Virgilio, dopo essere stati condannati in primo grado e in appello come mafiosi e riciclatori a Milano dei soldi di Cosa nostra, nel 1989 sono stati salvati in Cassazione dal giudice «ammazzasentenze» Corrado Carnevale, con la curiosa motivazione che i «rapporti d’affari» con i boss di Cosa nostra «non possono essere utilizzati come prove dell’organizzazione criminale, né dell’appartenenza a essa».

Ha molti clienti siciliani anche la Rasini, la banca con cui Lei compie le sue prime operazioni. È un piccolo istituto privato di credito con un unico sportello, nella centralissima piazza dei Mercanti, a un passo dal Duomo. A Milano godeva di una doppia fama: era considerata una banca efficiente, rapida e flessibile, ma anche assai spregiudicata. Il bancarottiere Michele Sindona, al noto giornalista e scrittore americano Nick Tosches, che nel 1985 gli chiedeva quali erano le banche della mafia, rispondeva: «In Sicilia il Banco di Sicilia, a volte. A Milano una piccola banca di piazza dei Mercanti».

Certamente cliente della «piccola banca di piazza dei Mercanti», cioè della Rasini, era il boss mafioso Robertino Enea. E lo erano anche Joe Monti e Antonio Virgilio, che facevano passare per la Rasini i loro soldi – e non erano pochi. Direttamente coinvolto nelle indagini sulla mafia dei «colletti bianchi» è Antonio Vecchione, il successore di Suo padre alla direzione della Banca Rasini. Dopo il 1973, anno in cui Carlo Rasini vende la sua banca, tra i nuovi azionisti ci sono il siciliano Giuseppe Azzaretto (con il 29,3 per cento) e (con il 32,7 per cento) tre società del Liechtenstein rappresentate da Herbert Batliner. Da un processo per traffico di droga e riciclaggio celebrato negli Stati Uniti nel 1998, risulta che Batliner svolgeva ruoli finanziari per narcotrafficanti latinoamericani. Dietro la Rasini, dunque, c’erano solo i denari nascosti in Svizzera dalla buona e operosa borghesia lombarda? Per tentare di rispondere, è necessario ricordare che cosa si muove sottotraccia a Milano a partire dai primi anni Sessanta.

I SICILIANI A MILANO. Nella capitale lombarda si insedia una potente colonia di mafiosi siciliani, i cui affari miliardari sono descritti in alcuni rapporti stilati in quegli anni dalla Criminalpol (la polizia criminale, che si stava per la prima volta specializzando in indagini sulla criminalità organizzata). Stabili sulla piazza milanese operano i fratelli Alfredo e Pippo Bono, Ugo Martello, Robertino Enea, oltre ai «colletti bianchi» Monti e Virgilio. Si trasferiscono al Nord dalla Sicilia boss come Gaetano Carollo, Giuseppe Ciulla, Gaetano Fidanzati, Vittorio Mangano. A Milano arrivano in «missione d’affari» Joe Adonis, Stefano Bontate (in quegli anni il numero uno di Cosa nostra), Tommaso Buscetta (che a Milano apre una società di import-export). Ma sono ben 372 i mafiosi che nel decennio tra il 1961 e il 1972 vengono inviati al soggiorno obbligato in Lombardia e che vi costruiscono la prima stabile rete d’affari delle organizzazioni criminali.

Fino alla metà degli anni Settanta non è ancora la droga il business prevalente di Cosa nostra, ma i sequestri di persona, le rapine, il contrabbando di tabacchi. I capitali provenienti dai riscatti e dalle altre attività illecite sono poi reinvestiti in attività imprenditoriali. I boss si trasformano in imprenditori. Ma non solo: stabiliscono una rete di rapporti con gli imprenditori «puliti». Racconta il collaboratore di giustizia Gaspare Mutolo: «Il pericolo dei sequestri, allora molto frequenti, portava gli industriali a entrare in contatto con gli uomini d’onore, anzi a desiderarne la protezione. Chiaramente, una volta entrato in contatto con Cosa nostra, l’imprenditore non poteva e non può più allontanarsene e deve consentire alle varie richieste che possono venire dagli uomini d’onore con cui è in contatto. Tra queste, indubbiamente, c’è anche il reimpiego di capitali d’illecita provenienza».

Anche Lei, dopo i primi successi imprenditoriali, teme per Sé e i Suoi familiari un sequestro: possibili obiettivi di rapimento sono anche Suo padre Luigi, Suo figlio Pier Silvio. Ne parla apertamente in un’intervista al Corriere, nel 1994: «Rapporti con la mafia ne ho avuti una volta sola, quando tentarono di rapire mio figlio Pier Silvio, che allora aveva cinque anni: portai la mia famiglia in Spagna e lì vissero molti mesi». Pier Silvio compie cinque anni il 28 aprile 1973, perciò almeno a quell’anno vanno fatti risalire il timore dei sequestri e le prime contromosse. Proprio in quell’anno, in effetti, Lei si ricorda di un giovane palermitano conosciuto negli anni dell’università (quindi più di dieci anni prima): si chiama Marcello Dell’Utri. Lo chiama e lo assume come assistente. L’anno successivo, Dell’Utri Le presenta un amico, Vittorio Mangano, che fa assumere come fattore presso la villa di Arcore. Mangano è un mafioso, uomo d’onore della potente famiglia palermitana di Porta Nuova. Da fattore, responsabile della gestione agricola e dei cavalli della villa, viene a vivere sotto il Suo stesso tetto.

UN'ESTATE IN SPAGNA. Nei primi anni Settanta Lei sembra davvero «assediato» dai siciliani sbarcati a Milano. Villa San Martino subisce alcuni furti, come ammette lo stesso Dell’Utri: «Effettivamente, nel 1974, quando Mangano stava già ad Arcore, furono rubati quadri e altri oggetti». La notte di Sant’Ambrogio, il 7 dicembre del 1974, un gruppo di siciliani tenta (senza successo) di sequestrare un ospite appena uscito da villa San Martino, Luigi D’Angerio. I Suoi uffici milanesi subiscono alcuni piccoli attentati, una bomba esplode il 26 giugno 1975 in una palazzina di via Rovani, a Milano, dove Lei aveva posto la sede delle Sue società.

I progetti di rapimento sono stati raccontati anche da alcuni dei siciliani coinvolti. Gaspare Mutolo ricorda che Lei, signor presidente del Consiglio, fu pedinato per settimane da Nino Grado, uomo d’onore palermitano; ma che poi arrivò il contrordine: Gaetano Fidanzati e Pippo Bono bloccarono l’operazione, annunciando che «Berlusconi è una persona intoccabile». Giuseppe Marchese, ex autista di Totò Riina, sostiene che due killer delle famiglie catanesi gli confidarono di aver progettato il sequestro di Pier Silvio, ma di essere stati fermati dai palermitani: «Noi avevamo l’intenzione di sequestrare il figlio di Berlusconi, però poi c’è stato l’intervento dei paesani vostri, i quali hanno detto che Berlusconi interessava», cioè «Cosa nostra palermitana era in rapporti tali con Berlusconi per cui costui non doveva essere in alcun modo disturbato».

Lo stesso Dell’Utri ammette il pressing, confermando l’arrivo di una lettera anonima ad Arcore nei primi giorni del 1975: «Rammento solo che si trattava di una richiesta di denaro. Se Silvio non avesse pagato, suo figlio sarebbe stato rapito e ucciso. (...) Arrivarono anche delle telefonate anonime. Berlusconi allora si allarmò. Eravamo ormai nel periodo estivo e così lui decise di andare all’estero con tutta la famiglia. Gli organizzai un viaggio in Spagna». Nelle dichiarazioni Sue e di Dell’Utri gli anni non corrispondono perfettamente: Lei, nell’intervista al Corriere, colloca le minacce e la «fuga» in Spagna quando Pier Silvio aveva cinque anni, quindi nel 1973; Dell’Utri nel 1975. In ogni caso, entrambi avete confermato che nella prima metà degli anni Settanta la famiglia Berlusconi era sotto il tiro della mafia. Ed entrambi avete ammesso che non furono denunciate né le minacce, né gli attentati.

Nel caso della bomba di via Rovani, addirittura, l’indagine di polizia viene depistata, poiché Lei non informa che la palazzina è di Sua proprietà, ma lascia credere che appartenga alla «Società Generale Attrezzature gestita da Walter Donati»: così è scritto in un rapporto della Direzione centrale della polizia criminale (la Sogeat vendeva gli immobili di Milano 2 e Donati, come abbiamo visto, non è che uno dei Suoi tanti prestanome). È legittimo dunque almeno ipotizzare che, poiché i «problemi» c’erano, furono risolti in altro modo, magari attraverso contatti diretti con i siciliani. È certo, invece, che Dell’Utri manteneva rapporti con i boss: è costretto egli stesso ad ammettere di aver partecipato, per esempio, alla festa per il compleanno di Antonino Calderone, il 24 ottobre 1976, al ristorante milanese Le colline pistoiesi, con presenti, oltre a Vittorio Mangano, i fratelli Nino e Tanino Grado. Pensi: quel Nino Grado che, secondo Mutolo, L’aveva pedinata in vista di un sequestro.

Ormai oltrepassata la metà degli anni Settanta, Cosa nostra è entrata alla grande nel business della droga e proprio i fratelli Grado sono protagonisti di un traffico d’eroina che dalla Turchia passa per Palermo e Milano, per essere poi indirizzata verso l’immenso mercato americano.

Dell’Utri frequenta anche Ilario Legnaro, capofila di una cordata di mafiosi catanesi che, in competizione questa volta con i palermitani, dà l’assalto (a suon di tangenti pagate ai politici democristiani e socialisti) ai casinò del nord Italia. Il contatto emerge per una sfortunata coincidenza: Dell’Utri è a casa di Legnaro l’11 novembre 1983, quando la polizia vi irrompe a sorpresa e arresta il catanese per associazione mafiosa, identificando anche i suoi ospiti, tra cui Dell’Utri.

Il Suo collaboratore ammette di aver sempre mantenuto un buon rapporto anche con Mangano. Gaspare Mutolo, a questo proposito, riferisce: «Mentre eravamo in carcere assieme, Vittorio Mangano mi disse che alcune somme provenienti da Pippo Calò, Salvatore Riina, Ugo Martello e Pippo Bono erano state investite a Milano da parte di Dell’Utri, che veniva considerato una persona seria, cioè affidabile ai fini della nostra organizzazione. Sempre Mangano mi disse che in passato Dell’Utri era stato vicino a Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti».

Secondo Filippo Alberto Rapisarda, un discusso finanziere proveniente dalla Sicilia che fin dagli anni Sessanta è nel giro dei siciliani attivi a Milano, Lei avrebbe incontrato personalmente addirittura il capo dei capi di Cosa nostra, Stefano Bontate. Rapisarda racconta nel 1987 al giudice istruttore di Milano Giorgio Della Lucia: «Tra il dicembre del 1978 e il gennaio del 1979, mentre stavo tornando dallo studio del notaio Sessa, incontrai, non lontano dalla sede dell’Edilnord, Stefano Bontate e Mimmo Teresi, i quali mi invitarono a prendere un caffè con loro in un bar di piazza Castello. Teresi e Bontate mi dissero che dovevano andare da Marcello Dell’Utri, il quale aveva loro proposto di entrare nella società televisiva che di lì a poco Silvio Berlusconi avrebbe costituito. Teresi mi disse che occorrevano dieci miliardi e, tra il serio e lo scherzoso, mi domandò se per me quello era un buon affare. Io ci rimasi male, anche se non feci trasparire nulla. Dell’Utri in quel periodo lavorava formalmente solo per me. Nel 1977, con lui al mio fianco, avevo aperto Milano Tele Nord, la prima tv privata della città, e avevo anche firmato un contratto con due consulenti che ci avevano insegnato tutto sul sistema pubblicitario... Il discorso di Teresi mi diede dunque la prova di quello che già sospettavo: Dell’Utri faceva la spia per Berlusconi».

Di certo in quegli anni Dell’Utri fa la spola tra Rapisarda e Lei: dopo aver lavorato per il primo, viene da Lei come assistente; torna per un breve periodo da Rapisarda, per poi passare definitivamente al gruppo Fininvest.

A COSA NOSTRA PIACE LA TV. Rapisarda ha ripetuto i suoi racconti, con dovizia di particolari, anche a chi scrive, aggiungendo di aver visto con i suoi occhi, nell’ufficio del suo dipendente Dell’Utri in via Chiaravalle (nel grande palazzo antico al centro di Milano dove ancora oggi Rapisarda abita), Bontate in persona che rovesciava borse piene di soldi da investire nelle tv. Nel 1998, poi, Rapisarda ha confermato gran parte delle sue accuse a Dell’Utri anche al processo di Palermo in cui Marcello Dell’Utri è imputato per mafia. Ma è attendibile il finanziere che, in maniera ondivaga, ha più volte strappato e poi ricucito i rapporti con Lei e Dell’Utri?

Di certo, una almeno parziale conferma alle parole di Rapisarda arriva comunque da un collaboratore di giustizia considerato particolarmente attendibile, Antonino Giuffé, braccio destro dell’ultimo capo di Cosa nostra, Bernardo Provenzano: «Con la scusa di andare a trovare Mangano» – racconta Giuffré nell’udienza del 7 gennaio 2003 del processo Dell’Utri – Stefano Bontate si era spostato da Palermo a Milano per incontrare, ad Arcore, l’imprenditore emergente Silvio Berlusconi. Nessun giornale italiano (tranne l’Unità di Furio Colombo) dà rilievo alla testimonianza. Commenta il New York Times: «In molti Paesi accuse di tale serietà potrebbero quantomeno condurre a voci di un imminente crollo del governo, ma in Italia sono a malapena registrate (...). Decenni di accuse sull’influenza della mafia sulla politica italiana, alcune reali, altre immaginate, hanno intorpidito gli italiani a tal punto che i quotidiani danno più spazio alle notizie sul maltempo».

LA PRIMA INCHIESTA. Certo è che Lei subisce la sua prima inchiesta giudiziaria proprio per i possibili rapporti con la criminalità organizzata: nell’ambito di un’indagine su droga e riciclaggio di soldi sporchi, nel lontano 1983 Le vengono posti sotto controllo i telefoni. In un rapporto della Guardia di finanza dell’epoca si legge: «È stato segnalato che il noto Silvio Berlusconi finanzierebbe un intenso traffico di stupefacenti dalla Sicilia, sia in Francia che in altre regioni italiane (Lombardia e Lazio). Il predetto sarebbe al centro di grosse speculazioni edilizie e opererebbe sulla Costa Smeralda avvalendosi di società di comodo aventi sede a Vaduz e comunque all’estero...».

L’indagine, condotta inizialmente dal magistrato milanese Giorgio Della Lucia (poi imputato per corruzione insieme al finanziere Rapisarda) non trovò alcun elemento penalmente rilevante e nel 1991 fu archiviata dal gip Anna Cappelli. Ma davvero negli anni Ottanta Lei ha intrattenuto rapporti d’affari con il faccendiere sardo Flavio Carboni, a sua volta in contatto con ambienti della criminalità organizzata romana, come ampiamente documentato dalla Commissione parlamentare sulla P2 presieduta da Tina Anselmi.

Alcune testimonianze che provengono dall’interno di Cosa nostra sostengono – ma forse è una leggenda – che Lei sarebbe stato beneficiato da uno scherzo del destino: Bontate viene ucciso nel 1981 dai corleonesi di Riina, che dopo una guerra di mafia con i palermitani con centinaia di morti, si impossessano di Cosa nostra. Che fine fanno i capitali accumulati dal capo palermitano? Risponde Gioacchino Pennino, mafioso e politico, poi diventato collaboratore di giustizia: «L’enorme patrimonio accumulato da Bontate e dal suo gruppo è ipotizzabile che sia rimasto nelle mani di chi lo aveva gestito e perciò, secondo quanto io ho appreso dall’avvocato Gaetano Zarcone, nelle mani di Berlusconi e dei fratelli Dell’Utri». Pennino è convinto di un preciso interesse di Cosa nostra per le Sue tv: «Mi sembra evidente come da sempre i vertici di Cosa nostra si siano resi conto dell’importanza del controllo dei mezzi d’informazione. (...) Ritengo che l’aquisizione, già avviata, di alcune emittenti televisive in Sicilia (mi pare due) sia stata portata a compimento da Berlusconi e Marcello Dell’Utri».

RELITTI SULLA SPIAGGIA. Sui rapporti tra Lei e Cosa nostra, negli anni si sono accumulate negli archivi moltissime testimonianze, ben più numerose di quelle qui riportate: una gran mole di materiali, come gli oggetti rilasciati dalle onde che si depositano sulle spiagge. Alcuni punti fermi ci sono. La Banca Rasini era certamente utilizzata dai siciliani a Milano. Certe sono le pressioni mafiose su di Lei nei primi anni Settanta, gli attentati e le minacce di sequestro. Certo è che la Sua risposta fu «privata»: l’apertura di contatti con alcuni siciliani (certamente Marcello Dell’Utri e Vittorio Mangano). In seguito, i contatti con la «filiale» milanese di Cosa nostra, inizialmente mirati a evitare un rapimento e a proteggere la famiglia, potrebbero essere diventati più solidi rapporti d’affari: Lei, imprenditore pieno d’idee ma privo di capitali propri, sostenuto come tanti, al Nord, dalla fiducia nel motto «pecunia non olet», potrebbe aver accettato finanziamenti anche da investitori particolari quali i boss mafiosi. Sono provati almeno due punti di contatto con i mafiosi siciliani: le trattative per l’acquisto di emittenti televisive in Sicilia; e il pagamento annuale a Cosa nostra di una somma (200 milioni di lire) non come frutto di una estorsione, ma come amichevole «regalo» ai boss, in relazione alla sicurezza delle Sue antenne televisive nell’isola.

Alle domande che i magistrati di Palermo avrebbero voluto porle all’interno del processo Dell’Utri (imputato di concorso esterno all’associazione mafiosa Cosa nostra) Lei non ha risposto e non può rispondere: perché dovrebbe svelare il possibile lato oscuro dei Suoi affari, dovrebbe confessare, se li ha avuti, i rapporti pericolosi che ha stretto lungo la Sua carriera (domande 17 e 26).

Signor presidente del Consiglio, c’è qualcosa che vorrebbe smentire, correggere, specificare, aggiungere?


5. La loggia P2

L’Economist

racconta l’iscrizione di Berlusconi alla loggia segreta di Gelli. Rimarca la sua falsa testimonianza sulle modalità dell’iscrizione. E ricorda un lontano episodio del 1979: un ufficiale della Guardia di finanza, Massimo Maria Berruti, esegue un’ispezione presso le società di Berlusconi, il quale sostiene di essere soltanto un consulente di aziende non sue; nel rapporto finale, il superiore di Berruti, Salvatore Gallo, raccomanda di non prendere alcuna misura nei confronti di quelle aziende, su cui pure gravano pesanti irregolarità valutarie. Berruti in seguito diverrà consulente Fininvest e poi parlamentare di Forza Italia. Gallo è tra gli iscritti alla loggia P2.


Le risposte di Berlusconi.


• Versione 1: ironia & folklore. «La tessera me la porta la segretaria dicendo: “C’è scritto che Lei, dottore, è apprendista muratore...”. Ero in riunione con 12 o 14 collaboratori: tutti scoppiamo a ridere. Ma come, dico io, sono il primo costruttore italiano di città e mi definiscono apprendista muratore? Questo non lo accetto» (6 marzo 2000).
• Versione 2: vanità & un piacere fatto a un amico. «Io resistetti molto a dare la mia adesione. Gelli mi riempì di complimenti dicendomi che mi considerava fra i nuovi imprenditori quello più bravo e insistette molto che io avevo un futuro importante davanti... Io resistetti molto a dare la mia adesione, poi lo feci perché Roberto Gervaso insistette particolarmente... Gervaso è un mio carissimo amico. Mi disse: “Fammi fare bella figura”, lui aveva bisogno di scrivere sul Corriere della sera. “Ma cosa ti costa, dammi questa possibilità, fammi fare bella figura”, e io aderii» (3 novembre 1993).
• Versione 3: interesse. «Mi sono iscritto alla P2 nei primi mesi del 1978, su invito di Licio Gelli, che conoscevo da circa sei mesi... Non ho mai versato contributi... Gelli mi chiarì che, tramite la Massoneria, organizzazione internazionale, avrei potuto avere dei canali di lavoro e contatti internazionali per la mia attività...» (26 ottobre 1981).
• Versione 4: sono appena arrivato & non ho mai pagato. «Non ricordo la data esatta della mia iscrizione alla P2, ricordo comunque che è di poco anteriore allo scandalo... Non ho mai pagato una quota d’iscrizione, né mai mi è stata richiesta» (27 settembre 1988).


Signor presidente del Consiglio, sulla base della nostra ricostruzione dei fatti, queste sono le risposte alle domande sulla P2.

La Sua prima «discesa in campo» avviene del 1977, quando Lei comincia a finanzare il Giornale di Indro Montanelli, comprandone una quota. Lo fa per un preciso impegno politico: contrastare la sinistra (che già vede anche dove non c’è) e rafforzare una voce della destra. Lo confessa in un’intervista a Pirani («Quel Berlusconi l’è minga un pirla», Repubblica, 15 luglio 1977): «Sentivo l’esigenza di conservare una pluralità di voci, col Corriere, il Carlino e la Nazione che andavano sempre più a sinistra». Alla domanda su quali fossero i suoi punti di riferimento politici, Lei risponde: «La vera alternativa è nella Dc, una Dc che si trasformi in modo da permettere al Psi di tornare al governo». Poi precisa che i suoi punti di riferimento sono, appunto, nella destra democristiana, quella anticomunista e tecnocratica. «Come pensa di impegnarsi a favore di queste forze?», Le chiede Pirani. «Non certo pagando tangenti, ma mettendo a loro disposizione i mass media. In primo luogo Telemilano, che sto riorganizzando e che diventerà un tramite fra gli uomini politici che dimostreranno di non aver divorziato dall’economia e dalla cultura e l’opinione pubblica». A parte l’accenno alle tangenti – excusatio non petita – Lei mostra di avere ben chiaro fin dagli esordi che i mass media, e la tv in particolare, sono (anche) un’arma politica. Una politica, naturalmente, che sia tutt’uno con gli affari.

Pochi mesi dopo, Lei entra nel club che incarna perfettamente la Sua concezione della politica e della sua compenetrazione con gli affari: si affilia alla loggia massonica P2 di Licio Gelli. Numero di tessera 1816, fascicolo 625, data di iniziazione 26 gennaio 1978, codice E 19.78, gruppo 17, quello del settore editoria. Sulla Sua affiliazione, ha sempre minimizzato, ironizzato, mentito. Tanto da rischiare anche una condanna per falsa testimonianza, evitata grazie a una provvidenziale amnistia: la versione 4 sopra riportata, infatti, Lei l’ha sostenuta sotto giuramento mentre deponeva davanti al tribunale di Verona, come teste-parte offesa in un processo contro alcuni giornalisti da cui si era sentito diffamato. Nella Sua testimonianza, dopo aver giurato di dire tutta la verità, ha affermato che la Sua iscrizione è «di poco anteriore allo scandalo» e di non aver mai pagato quote. Scatta la denuncia per falsa testimonianza. E la Corte d’appello di Venezia nel maggio 1990 ritiene provato che Lei ha mentito: perché l’affiliazione era avvenuta all’inizio del 1978, quindi non poco prima, ma più di tre anni prima che i giudici Giuliano Turone e Gherardo Colombo trovassero, nel marzo 1981, le liste degli affiliati; e perché agli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2 vi sono le prove del pagamento dell’iscrizione. Non c’è stata condanna: perché il reato di falsa testimonianza è estinto per effetto dell’amnistia del 1989. Un’amnistia che Lei non ha ritenuto di rifiutare.

Signor presidente del Consiglio, ci permetta una digressione. La P2 nasce in Italia come effetto della «svolta del 1974». Fino a quell’anno, la destra oltranzista filoamericana è impegnata in tutta Europa in una strategia anticomunista del muro contro muro, della lotta senza esclusione di colpi: fino, se necessario, al golpe. In Grecia il golpe c’è stato; in Italia, Paese economicamente e socialmente più complesso, le fortissime spinte eversive si sono fermate entro i confini di quella che è stata chiamata «strategia della tensione», o low intensity war (conflitto a bassa intensità), da piazza Fontana al tentato golpe Borghese, da piazza della Loggia fino alla strage dell’Italicus.

Nel 1974, però, le cose cambiano. Negli Usa cade il presidente Nixon e l’amministrazione americana ritira il sostegno, in Europa, alla strategia apertamente eversiva. Finisce il regime dei colonnelli in Grecia e si sbriciola la dittatura salazarista in Portogallo. In Italia, gran parte del personale impegnato nella dura fase della «guerra non ortodossa» si ricicla in una strategia nuova, più flessibile, che si propone non più lo scontro diretto con il nemico comunista, ma l’occupazione sotterranea dei centri di potere del Paese, da sottrarre al «nemico».

In questa fase, una parte del fronte occidentale procede invece lentamente sulla strada dell’apertura a sinistra, del «disgelo» che punta a portare almeno una parte del «nemico comunista» dentro le regole della democrazia occidentale. Gli oltranzisti atlantici, al contrario, mantengono la via dell’anticomunismo «senza se e senza ma». E dichiarano guerra a chiunque, anche dentro il loro campo, ceda davanti a quella che ritengono non un’apertura, bensì soltanto una nuova offensiva del comunismo, meno violenta ma più subdola e pericolosa. Per questo agli oltranzisti atlantici la divisione in partiti risulta ormai insufficiente: è necessario distinguere, anche dentro i partiti di centrodestra, gli «amici» dai «nemici», selezionare in ogni settore chi è davvero fedele all’Occidente, creare un «club» trasversale di uomini dello Stato soggetti a un doppio giuramento, di imprenditori e professionisti che conducano la loro battaglia senza cedere alle sirene dell’apertura a sinistra.

Questa, in estrema sintesi, è la natura politica della P2, che era in effetti uno Stato nello Stato, «club» dell’oltranzismo altlantico anticomunista, e insieme un crocevia di relazioni e d’affari. In questo «club» (termine che poi riprenderà quando deciderà di fare politica in proprio) Lei entra nel gennaio 1978. L’intervista del luglio ’77 a Pirani dimostra la consapevolezza politica dell’imprenditore quarantenne che sta passando dal settore immobiliare a quello televisivo: non è uno sprovveduto, mosso soltanto dal desiderio di fare soldi; ha anche una sua precisa visione della politica, in cui gli affari, certo, sono parte essenziale. Per questo la P2 è esattamente il luogo della politica così come Lei la intende: un mix di pulsioni tecnocratiche e autoritarie e di occasioni d’affari, in un contenitore (un «club») trasversale ai partiti.

crediti facili e mundialito. Certamente dall’adesione alla P2 Lei ha ottenuto consistenti benefici economici. La bugia sulla data d’affiliazione (domanda 27) non è, dunque, innocente: non serve soltanto a minimizzare la Sua adesione alla loggia di Gelli, ma soprattutto a tentare di nascondere che c’è stato un periodo – oltre tre anni – in cui le relazioni piduiste hanno portato i loro frutti (domanda 28). Era un Suo fratello di loggia quel Ferruccio De Lorenzo, presidente dell’Enpam (l’ente di previdenza e assistenza dei medici italiani), che Le acquista una parte di Milano 2 in anni difficili, di mercato immobiliare bloccato. Gli aiuti più consistenti, però, Le sono venuti nel settore del credito: gli uomini della P2 nelle banche Le hanno facilitato l’accesso ai finanziamenti. Lo documenta la Commissione parlamentare d’inchiesta sulla P2, facendo riferimento alla Banca Nazionale del Lavoro, che alla fine degli anni Settanta è praticamente controllata dalla P2, con ben nove alti dirigenti affiliati (tra cui Gianfranco Graziadei, amministratore delegato di Servizio Italia, una delle due fiduciarie che fondano la Fininvest); e al Monte dei Paschi di Siena, che aveva come direttore generale Giovanni Cresti, iscritto alla P2.

Una relazione del Collegio dei sindaci del Monte dei Paschi nel 1981 sostiene: «La posizione di rischio verso il gruppo Berlusconi ha dimensioni e caratteristiche del tutto eccezionali. (...) Gli Ispettori che hanno esaminato la posizione (nella sua globalità) ne hanno fatto un’analisi accurata che ci consente di pervenire a conclusioni che dimostrano l’esistenza di un comportamento preferenziale accentuato». Seguono tabelle che documentano come il sistema creditizio italiano Le abbia messo a disposizione, tra il 1974 e il 1981, fidi per poco meno di 199 miliardi di lire e fidejussioni per oltre 150 miliardi. Circa il 20 per cento di queste cifre è erogato dal Monte dei Paschi. Conclude la Commissione Anselmi: «Alcuni operatori (Genghini, Fabbri, Berlusconi e altri) trovano appoggi e finanziamenti al di là di ogni merito creditizio».

La P2 è presente anche in uno snodo importante della storia delle Sue tv. Nel periodo 1978-1980, la loggia di Gelli è molto attiva nel settore dei media. Acquisisce il controllo di fatto del maggior gruppo editoriale del Paese, la Rizzoli-Corriere della sera. Poi sferra un attacco al monopolio televisivo della Rai. Nel 1980 porta a termine con successo l’operazione Mundialito.

Sotto la regia di Licio Gelli, che aveva grandi interessi economici e ottime entrature politiche in Uruguay con la giunta golpista al potere, Canale 5 ottiene i diritti televisivi europei per il Mundialito, il campionato mondiale tra le nazionali calcistiche vincitrici della Coppa Rimet, programmato a Montevideo per il 1981. Non solo: la Sua rete ammiraglia ha il permesso, in deroga alle leggi vigenti, di trasmettere le partite, per la prima volta, in diretta e su tutto il territorio nazionale. È la prima rottura del monopolio televisivo Rai. Nel governo che permette la svolta sono presenti: il ministro delle Poste Michele Di Giesi, socialdemocratico, che obbediva al suo segretario di partito Pietro Longo (tessera P2 numero 2223), il ministro di Grazia e giustizia Adolfo Sarti (che aveva presentato domanda d’iscrizione, accolta all’unanimità nel giugno 1978) e il ministro del Commercio estero Enrico Manca (con in Svizzera il tesoretto gestito da Previti e in tasca la tessera P2 numero 2148, ma – come abbiamo visto – estraneo alla P2 per sentenza).

Oltre a questi consistenti benefici materiali, la P2 permette a Lei, ignoto palazzinaro milanese e «nuovo ricco» tenuto ancora fuori dai salotti che contano, qualche soddisfazione morale, il suo primo ingresso in società: a partire dal 10 aprile 1978 (tre mesi dopo l’affiliazione alla loggia di Gelli), Lei diventa, a sorpresa, collaboratore del Corriere della sera, dotto commentatore di fatti economici. L’Italia ancora non lo sa, ma il Corriere è caduto sotto il controllo della P2: e in un aprile drammatico, in cui le pagine di tutti i quotidiani sono piene di notizie sul terrorismo e sul sequestro – in corso – del presidente della Dc Aldo Moro, il più importante quotidiano nazionale riesce a trovare lo spazio per pubblicare con grande evidenza, a pagina 2, in apertura, lo scritto del suo nuovo opinionista (titolo: «Un piano per l’industria che darà pochi frutti. Con la nuova legge 675 si rischiano tutti gli inconvenienti del dirigismo»).

Signor presidente del Consiglio, c’è qualcosa che vorrebbe smentire, correggere, specificare, aggiungere?

In conclusione.

Queste le risposte alle domande dell’Economist e alle altre aggiunte da Diario. Sono risposte che naturalmente mantengono un’area d’incertezza, in materie tanto complesse e delicate, ma che sono il frutto dello studio attento di tutta la documentazione finora disponibile, senza preclusioni né pregiudizi. Siamo disponibili a cambiare radicalmente opinione su queste vicende, se Lei, signor presidente del Consiglio, ci vorrà fornire risposte alternative convincenti.


Diario, 29 agosto 2003



Integrale, il dossier dell'Economist del 30 luglio 2003 con le 28 domande a Berlusconi.

vai su

 
 
 

Cerca nel sito o nel web


Sito Web

powered by FreeFind

 
 

 

Francesco Delfino
Condannato il generale Delfino dalla Cassazione, per il rapimento Soffiantini.
Ecco chi era il carabiniere che attraversò tutte
le storie oscure d’Italia, dalle stragi nere
al terrorismo rosso,
dai sequestri alla mafia

Campioni d’Italia

• Flavio Briatore
Mafia, donne
e motori

• Giancarlo Elia Valori
Le ombre del potere

• Massimo De Carolis
Politica e tanti affari

• Edgardo Sogno
Il golpista ha confessato,
i suoi sostenitori no

 
posta