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Quando Pera «lavorava»
per la famiglia Berlusconi
Il presidente del Senato
ha condotto la discussione sulla legge Cirami «salvapreviti»
facendo strame del Regolamento e della Costituzione. Ma c'è
un precedente
Ritratto di Marcello Pera, ex «giustizialista»
diventato fedelissimo di Berlusconi. Tanto da anticipare i
tempi della Cirami: chiedendo il «trasferimento»
di un processo a Paolo, fratello del leader di Forza Italia.
Ecco la storia dimenticata dello «scandalo del giallino»

Questo ritratto di Marcello Pera
è tratto dal libro "Campioni d'Italia", di
Gianni Barbacetto,
Marco Tropea editore
Erano anni che studiava da ministro della Giustizia.
Si era accuratamente preparato. Pregustava il momento. Aveva
perfino già fatto sapere che, appena arrivato al ministero
di via Arenula, per prima cosa avrebbe fatto cambiare la scrivania:
non si sarebbe seduto a quella che fu di Palmiro Togliatti.
Invece la politica italiana riserva sempre qualche sorpresa,
così il professore si è trovato a essere il
presidente del Senato, la seconda carica istituzionale della
Repubblica. Ma quale Pera è andato da Lucca a Roma,
ad accomodarsi tra i velluti rossi di Palazzo Madama? Sì,
perché in realtà i Pera sono due. Il primo è
un professore «giustizialista», che spara contro
i politici corrotti e si schiera senza riserve dalla parte
dei magistrati che fanno finalmente pulizia. Il secondo è
un politico «garantista», che non perde occasione
di bacchettare sulle dita i magistrati che si permettono di
mettere sotto inchiesta i politici. Pera Uno inneggia entusiasta
a Mani pulite. Pera Due è il castigamatti dei giudici.
Per la giustizia ha una specie di ossessione e ripete, ogni
volta che ne ha l'occasione, la sua ricetta: separare i pubblici
ministeri (che indagano e rappresentano l'accusa) dai giudici
(che emettono sentenze); e riformare l'obbligatorietà
dell'azione penale, uno strumento da non lasciare tutto nelle
mani dei pubblici ministeri, ma da affidare al Parlamento
(o al governo, si vedrà). Un programma da ministro
della Giustizia, che ha dovuto affidare ad altri...
Che siano due, a Lucca lo sanno bene. Il primo Marcello
Pera nasce nella città toscana il 28 gennaio 1943,
figlio di un ferroviere. Studia all'istituto tecnico, ma dopo
il diploma va all'università e si laurea in filosofia.
Il ragazzo ha stoffa, tanto che resta nell'università,
fino a diventare professore ordinario di Filosofia della scienza.
A Lucca abita in un appartamento senza pretese nel quartiere
di Sant'Anna, fuori dallo splendido centro città contornato
dalle mura antiche. Quando può, si ritira poco distante, nella
campagna, dove ha una casetta nel verde. Non è uomo
da vita mondana, Marcello Pera. Il massimo della felicità
per lui è fare qualche viaggio, preferibilmente a Londra.
L'accademia, però, gli va stretta: a Pera piace buttarsi nella
battaglia politica, nello scontro, nella polemica. Si impegna
nell'area laica, nel movimento referendario di Massimo Severo
Giannini. E scrive. Polemista vigoroso, viene ingaggiato come
commentatore dal quotidiano La Stampa.
Quando scoppia Mani pulite, non usa perifrasi: «Come
alla caduta di altri regimi, occorre una nuova Resistenza,
un nuovo riscatto e poi una vera, radicale, impietosa epurazione...
Il processo è già cominciato e per buona parte
dell'opinione pubblica già chiuso con una condanna»
(La Stampa, 19 luglio 1992). Attenzione, non è Paolo
Flores d'Arcais, il direttore di Micromega, ma proprio Marcello
Pera: «I partiti devono retrocedere e alzare le mani...
subito e senza le furbizie che accompagnano i rantoli della
loro agonia. Questo sì sarebbe un golpe contro la democrazia:
cercare di resistere contro la volontà popolare»
(1 febbraio 1993). Pera Uno il giustizialista parla chiaro:
«Il garantismo, come ogni ideologia preconcetta, è
pernicioso» (29 marzo 1993). «I giudici devono
andare avanti. Nessuno chiede che gli inquisiti eccellenti
abbiano un trattamento diverso dagli altri inquisiti»
(5 marzo 1993). A chi si permette di attaccare i magistrati,
Pera Uno risponde con parole di fuoco: «No e poi no,
onorevole Bossi. Lei deve chiedere scusa... I giudici fanno
il loro dovere... Molti magistrati sono già stati assassinati
per aver fatto rispettare la legge... Lei mette in discussione
i fondamenti stessi dello Stato di diritto» (24 settembre
1993). Del resto, per il giacobino Pera, «la rivoluzione
ha regole ferree e tempi stretti» (26 settembre 1993).
Ma al culmine della foga «giustizialista»,
di Marcello Pera Uno si perdono le tracce. Al suo posto compare
Marcello Pera Due, che si schiera con Forza Italia, comincia
una martellante campagna contro i magistrati e i «giustizialisti»,
definisce «golpisti» i pool di Milano e Palermo,
chiede a Massimo D'Alema di «fermare i giudici».
Con queste credenziali, Silvio Berlusconi è ben contento
di poterlo annoverare tra i «professori» che si
sono schierati con il suo movimento, contribuendo a far declinare
l'immagine di Forza Italia «partito di plastica»
nato da una raffica di spot. Al professore di filosofia con
la passione per la giustizia, nel 1996 Berlusconi offre un
collegio senatoriale, nella sua Lucca. Pera Due è sconfitto
dal senatore locale, il ds Patrizio Petrucci, ma viene recuperato
con i resti: così entra per la prima volta in Senato,
dove diventa subito vicepresidente del gruppo di Forza Italia,
ma soprattutto responsabile nazionale Giustizia del partito
di Berlusconi. Con il collega parlamentare Marco Boato, Pera
Due dà vita alla Convenzione per la giustizia, uno
pseudo-partito che serve a far arrivare qualche miliardo di
denari pubblici al quotidiano berlusconiano Il Foglio. Alle
elezioni del 13 maggio 2001, Marcello Pera si è ripresentato
nel collegio senatoriale di Lucca e questa volta è
stato subito eletto: ha raccolto 4 mila voti più di Petrucci,
azzoppato da Rifondazione comunista (che nel collegio ha ottenuto
8 mila voti).
Così per lui si sono riaperte le porte di Palazzo
Madama: ma Pera non sapeva ancora che ne sarebbe diventato
il presidente. Sempre con il pensiero rivolto a giudici e
giustizia, aveva subito ribadito, per l'ennesima volta, i
suoi propositi: nel giorno dell'anniversario della strage
di Capaci, ricordando Giovanni Falcone, aveva dichiarato:
«Lui era un grande che aveva visto giusto. Non gli piacevano
pm e giudici uniti assieme in una sola carriera e non credeva
più all'obbligatorietà dell'azione penale che, com'è
oggi, è solo una presa in giro». è proprio
per esternazioni di questo tipo che Pera Due era visto con
preoccupazione dalla gran parte dei magistrati, che si aspettavano
di vederlo insediato al ministero della Giustizia e temevano
che arrivasse a intaccare l'autonomia della magistratura,
tagliare le unghie alle procure impiccione, frenare l'azione
dei pubblici ministeri.
C'è un precedente, in effetti. Un pesante intervento
di Marcello Pera contro due magistrate milanesi colpevoli
di indagare sul fratello di Silvio Berlusconi. Una storia
di famiglia, che vale la pena di raccontare. La superpattumiera
Cerro Maggiore è un paesone non troppo distante da
Milano. Ma ormai il suo nome evoca soprattutto la vicenda
intricata, sporca, interminabile, della discarica: una superpattumiera
che per anni ha raccolto i rifiuti di Milano. La famiglia
Berlusconi coglie l'attimo e apre una discarica, appunto,
a Cerro. Qui per anni, grazie alla sponda politica fornita
prima dai democristiani, poi dal presidente della Regione
Lombardia Roberto Formigoni, sono convogliati i rifiuti della
grande Milano. Un'indagine della procura durata anni scopre
che Paolo Berlusconi, fratello di Silvio e titolare della
società Simec che gestisce la discarica, tra il 1991
e il 1996 ha realizzato guadagni favolosi: ha messo a bilancio
ricavi per 243 miliardi; di questi, secondo i magistrati,
almeno 150 sono soldi che la Simec ha sottratto dalle casse
pubbliche: sono la differenza tra i miliardi incassati per
lo smaltimento e l'effettivo costo del servizio. Per questo,
Paolo Berlusconi sarà chiamato a rispondere dei reati
di peculato e di corruzione. Poi, però, le ricche casse della
Simec sono state prosciugate, con una serie di operazioni
finanziarie (raccontate nel capitolo dedicato a Paolo Berlusconi)
che sono costate all'imprenditore le ulteriori imputazioni
di falso in bilancio, false comunicazioni societarie, frode.
Ora le magistrate Margherita Taddei e Giulia Perrotti, coordinate
dal procuratore aggiunto di Milano Corrado Carnevali, sono
arrivate alla fine del loro lavoro. Ma c'è stato un
momento, nell'autunno 2000, in cui tutto stava per saltare.
è in quel momento delicatissimo che Marcello Pera è
entrato a gamba tesa nella vicenda.
Più che un giallo, è un «giallino». Tutto
comincia infatti con un bigliettino giallo, un post-it
adesivo inserito nel fascicolo dell'inchiesta. La Simec, da
cui titolari e prestanomi hanno succhiato tutti i miliardi
incamerati negli anni, è restata una scatola vuota.
Anzi, piena, ma solo di debiti. Il fisco, per esempio, pretende
dalla Simec oltre 100 miliardi di tasse non pagate. A questo
punto la società, che è già stata commissariata
dai magistrati ed è nelle mani di un custode giudiziario,
dovrebbe essere posta in liquidazione. Non ha dipendenti,
quindi il fallimento non lascerebbe nessuno sul lastrico;
ma sarebbe un disastro per Paolo Berlusconi, perché alle sue
imputazioni (peculato, corruzione, falso in bilancio, frode)
aggiungerebbe quella di bancarotta fraudolenta, un reato gravissimo,
punibile con una pena fino a 20 anni. Berlusconi e il suo
ambiente si mettono al lavoro per scongiurare il pericolo.
Intanto, però, Fausto Bongiorni, il custode giudiziario della
Simec nominato dal giudice per le indagini preliminari Rosario
Lupo, permette lo svolgersi di una procedura assai strana:
vende (con l'autorizzazione del giudice Lupo) una piccola
parte delle quote societarie della Simec (il 5 per cento)
al proprietario di fatto dell'azienda, Paolo Berlusconi, che
se n'era formalmente liberato. è come vendere un corpo
di reato all'imputato del reato medesimo, ma a Berlusconi
serve: rientrato nella società che aveva spogliato,
tratta con il fisco, salda i debiti e chiude la partita pagando
76 miliardi. Il pericolo di doversi caricare sul groppone
anche il reato di bancarotta fraudolenta è scongiurato.
Le due magistrate dell'accusa, Margherita Taddei e Giulia
Perrotti, insorgono: il custode giudiziario Bongiorni ha permesso
operazioni che non doveva permettere. Aprono un'indagine per
abuso d'ufficio nei suoi confronti e chiedono al tribunale
del riesame di bloccare l'operazione. A questo punto, per
salvare Berlusconi, si scatena il finimondo. Pressioni. Interventi.
Clima pesante. E scatta lo scandalo del post-it.
Il bigliettino giallo. Lo scoprono gli avvocati difensori
di Paolo Berlusconi, dentro il fascicolo dell'inchiesta che
era arrivato al tribunale del riesame. è un bigliettino
giallo, su cui è scritto, a mano: «Cara Elisabetta,
si tratta solo di 322 bis ordinanza Gip che ha accolto l'istanza
del custode con parere negativo del pm e la dottoressa si
è arrabbiata. Se ci sono problemi fai parlare il presidente
con la dottoressa Taddei. Saluti e baci». L'ufficio
del pubblico ministero e il tribunale del riesame non devono
scambiarsi saluti e baci. Non devono affidare le comunicazioni
a bigliettini informali. Non devono ipotizzare incontri risolutivi
fuori dalle aule di giustizia. Immediatamente, l'avvocato
di Berlusconi, Oreste Dominioni, firma un esposto di fuoco,
in cui sottolinea la gravità dell'atto. Cita anche
un documento di Bongiorni, che denuncia di aver subito «pesanti
condizionamenti» da parte del pubblico ministero (Curioso:
come mai l'avvocato dell'imputato Berlusconi ha a disposizione
i documenti del custode giudiziario del tribunale?). L'obiettivo
è chiaro: salvare Paolo Berlusconi dall'imputazione
di bancarotta fraudolenta e strappare l'inchiesta a Taddei
e Perrotti, due donne che hanno lavorato sodo per anni. Gli
atti che hanno prodotto riempiono una stanza: se fossero affidati
a qualcun altro che dovesse ripartire da zero, l'inchiesta
sarebbe morta. Si mette immediatamente in moto una gioiosa
macchina da guerra: avvocati, politici, giornalisti, membri
del Consiglio superiore della magistratura (Csm).
Del resto, c'è un intero partito a disposizione
della famiglia. Il Giornale (di proprietà di Paolo
Berlusconi) scatena una campagna martellante, con lunghi articoli
e piccati editoriali («Le tracimazioni della giustizia»,
firmato da Francesco Pintus, già magistrato a Cagliari).
Al Csm si attivano subito i consiglieri del Polo Michele Vietti,
Bartolo Gallitto e Mario Serio, che chiedono al Consiglio
di mettere sotto inchiesta disciplinare Taddei e Perrotti.
E anche Marcello Pera porta il suo sostanzioso contributo
alla campagna: rivolge un'interrogazione al ministro della
Giustizia Piero Fassino, chiedendo «un'azione disciplinare
a carico dei pm» e comunque la loro «sostituzione,
a titolo preventivo». Poi prende la mira e spara su
di loro dalle colonne del Giornale: «La Taddei non conosce
le regole elementari della sua funzione». «Quel
pezzo di carta conferma una brutta tradizione milanese: i
pm considerano i giudici come inservienti». «Io
spero che le due pm si astengano spontaneamente; oppure che
sia il loro capo, D'Ambrosio, a suggerire loro di astenersi.
Insomma, ci vuole un segnale...».
Come va a finire? Il procuratore della Repubblica Gerardo
D'Ambrosio e il procuratore generale Francesco Saverio Borrelli
difendono le due magistrate. Taddei e Perrotti riescono a
mantenere i nervi saldi. Ora la Cassazione, dopo il tribunale
del riesame, dovrà decidere se era legittimo o no lo
strano salvataggio della Simec permesso dal custode giudiziario.
E il bigliettino giallo? Una semplice indagine interna ha
appurato quanto segue: era stato scritto non dalla dottoressa
Taddei, ma da un'impiegata; e non un'impiegata della procura,
ma del tribunale del riesame, che si rivolgeva a una collega
dello stesso ufficio. Nessuna pressione della procura sul
giudice. Tanto rumore per nulla? Sì, ma l'attacco alle
due magistrate solo per un soffio non ha ottenuto il risultato
sperato dal fronte Berlusconi. Intanto Silvio è diventato
presidente del Consiglio. E Marcello Pera presidente del Senato.
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